Antonella Cagnolati
L’angolo visuale dal quale ognuno di noi osserva l’orizzonte determina la composizione di legami sociali, affettivi, culturali i quali, a loro volta, segnano le nostre esistenze con prassi e comportamenti che incidono in maniera rilevante sulle comunità delle quali ciascuno fa parte, vuoi in maniera dinamica e propositiva, vuoi attraverso la semplice presenza in spazi e luoghi, al di fuori da ogni logica di partecipazione (Sartori 2001).
La complessità del mondo attuale obbliga gli individui a recuperare fattivamente la propria identità, pena l’annullamento delle categorie di appartenenza e radicamento che sono alla base del riconoscimento (Benhabib 2005; Maalouf 2007), ma nel contempo, attraverso il costante movimento di persone, cose ed idee, essa opera per omologare menti e cuori, smussare difformità, espandere simboli e modelli ben al di là dei confini che li hanno originariamente generati e supportati sotto il profilo antropologico (Hannerz 2001).
In aggiunta, la globalizzazione (Baumann 1998), questa nuova divinità minacciosa, assimilata sempre più ad una vorace predatrice che si nutre di vittime sacrificali, procede nella sua corsa sfrenata trasformando le persone in monadi autoreferenziali che vengono forgiate attraverso strutture socio-economiche di dimensione planetarie, volte ad annichilire le differenze ed a spregiarle come elementi divergenti rispetto al modello archetipico di utente-consumatore nonché a etichettare come negativi o devianti i comportamenti palesemente in rotta di collisione con il pensiero unico propagandato dai media.
Si determina di conseguenza (ancora una volta) una sorta di darwinismo sociale in cui alcuni – per citare Orwell – sono più uguali degli altri, collocati in una scala gerarchica che legittima denigrazioni verbali, aggressioni fisiche, negazionismi culturali non solo contro i “dannati della Terra” ma anche contro chi è semplicemente (per origini, religione, abito, tradizioni) diverso (Todorov 1991).
Si impone, ça va san dire, una radicale opera di decostruzione da contrapporre foucaultianamente al pensiero unico e alla logica perversa che vuole ricondurci ad una visione verticistica della comunità-mondo: ed in questo titanico scontro la storia gioca un ruolo di enorme rilevanza.
Sempre più di frequente la storia, ben lungi dall’essere finita, appare infatti oggetto di revisionismo nonché di tentativi di ridimensionamento di eventi e fenomeni che hanno pesantemente segnato il nostro presente, nell’ottica di appiattire i paradigmi etici e smussare la categorie di giudizio volte a definire con esattezza implacabile quale sia il confine tra giusto e sbagliato, tra il bene e il male, tra la legalità e l’ingiustizia (Goody 2008). Per quali recondite motivazioni assistiamo talvolta impotenti ad un tale scempio? Con tutta probabilità perché si vuole far passare una versione “edulcorata” della storia, tesa a minimizzare conflitti oppure ad enfatizzare ataviche disuguaglianze e presunte inferiorità, negando la loro origine sociale ed economica e proponendo e contrario una falso determinismo antropologico.
A maggior ragione una riflessione volta a rivedere i meccanismi alla base della complessità impone di indagare nel nostro passato, con l’ausilio di strumenti eterogenei e molteplici, le radici del presente per confutare facili determinismi o illusorie palingenesi. Ancor più vero quando si tratti di denunciare come obsoleto e pericoloso un facile etnocentrismo che ipostatizza disuguaglianze, che elabora giudizi di valore, che rafforza sudditanze nell’hic et nunc.
Nella società del presente, costruita sulle interrelazioni generate dai flussi migratori (Koser 2009), è assolutamente necessario imporsi uno sguardo politically correct che impedisca la riproposizione di modelli culturali basati sulla sottolineatura giudicante di particolari elementi: dunque intrecciare un atteggiamento fondato su una visione globale con un approccio interculturale mi pare possa aprire un nuovo modo non solo di “fare storia” ma di rileggere il passato attraverso fili rossi che enfatizzino il rilevante contributo che ogni cultura e popolazione ha fornito all’edificazione del mondo attuale.
La proposta di una didattica alternativa della storia che passa sotto il nome di world history (Brusa, Guarracino, De Bernardi 2008) si colloca in una precisa linea prospettica: ad una costruzione degli eventi come epifenomeni isolati, emergenti dal vuoto cosmico, si contrappone una struttura reticolare in cui fin dall’alba della civiltà ogni fatto si posiziona su uno scenario di dimensioni planetarie sul quale incide in modo rilevante in virtù delle conseguenze che ogni variabile, pur nella sua più piccola dimensione, provoca nell’ambito al quale pertiene, e giunge altresì a motivare e/o a dare contezza di ulteriori dinamiche socio-economiche.
Tale incessante lavoro di interconnessione annulla la prospettiva sequenziale sulla quale solitamente sono distribuiti gli accadimenti per generare una visione parallela dei meccanismi che stanno alla base dei singoli eventi: si tratta dunque di innestare su un approccio largamente braudeliano una didattica che pone le civiltà in parallelo e ne motiva emersioni, sparizioni, incontri, intrecci, opposizioni.
Ciò che vorrei sottolineare come estrema positività nella didattica della world history è il tentativo di non riprodurre gerarchie: le civiltà non vanno collocate in uno schema concentrico bensì in linee verticali parallele che fanno della cronologia il contenitore che le accomuna e le visualizza agevolmente come contemporanee, seppur talvolta nell’assoluta assenza di contatti.
Tale innovazione si palesa come ancora più urgente allorquando intendiamo abbattere stereotipi e pregiudizi che nella casa comune della storia hanno troppo spesso acquisito diritto di cittadinanza e che sono difficili da sradicare al punto da affollare finanche il lessico che utilizziamo per etichettare gli eventi: termini come “scoperta”, “conquista”, “invasioni”, “razze” riempiono i libri di storia che i nostri studenti maneggiano ogni giorno, accompagnati da immagini non sempre felici dal punto di vista iconografico.
Per quale motivo ritengo importante questo approccio “mondializzante” alla didattica della storia? Le ragioni sono numerose e distinte. In primo luogo, vi è l’esigenza di costruire una differente visione del mondo basata sulla pari dignità delle culture che si motiva con la loro presenza in tempi e spazi paralleli e coevi. In seconda istanza, si tratta di innestare su questa visione un’ampia gamma di valori quali l’educazione alla pace, il rispetto per l’altro da sé, la tolleranza di usi e costumi differenti dai propri, il riconoscimento delle tradizioni altrui.
Infine, si tratta di riconoscere nel complesso e avventuroso corso della storia una serie di principi ai quali non si può derogare: mi riferisco ai diritti umani, terreno quanto mai problematico, la cui definizione è oggetto di continue rinegoziazioni a seconda delle culture e dei periodi in cui vengono definiti e affermati (Baccelli 2009).
Ma c’è di più. La presenza nelle scuole italiane di bambini appartenenti a differenti etnie ci obbliga a ripensare la storia secondo categorie nuove e, a mio avviso, affascinanti, che presuppongono l’idea di incontro fecondo delle culture, fornendo chiavi di lettura del mondo ai cittadini del futuro. È dunque il caso di precisare che una metodologia didattica la cui finalità si oggettiva nel presentare tutte le culture su un piano di parità contribuisce a dare dignità a ogni bambino, garantendone l’inclusione e, nel contempo, a far conoscere “nuovi mondi” a coloro pienamente come soggetti in una collettività, senza preclusioni di sorta e senza pregiudizi fossilizzati (Chatterjee 2007).
L’interculturalità (Pinto 2002; Cacciatore, D’Anna 2010) è l’orizzonte entro il quale dobbiamo collocare le nostre metodologie didattiche per favorire la comprensione e per evitare facili e banali normativizzazioni in nome di un’apparente neutralità. Lingue, culture, tradizioni, cibi, abbigliamento, colore della pelle sono elementi ai quali la storia può e deve garantire un’attribuzione di senso, pena la riproposizione di una falsa omologazione a presunti modelli ritenuti superiori, quanto mai forieri di inevitabili lutti e tragedie.
Bibliografia
Baccelli L.
2009 I diritti dei popoli. Universalismo e differenze culturali, Roma-Bari, Laterza.
Baumann Z.
1998 Dentro la globalizzazione, Bari-Roma, Laterza.
Benhabib S.
2005 La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era globale, Bologna, il Mulino.
Brusa A., Guarracino S., De Bernardi A.
2008 L’officina della storia, Milano, B. Mondadori, 3 voll.
Cacciatore G., D’Anna G. (cur.)
2010 Interculturalità. Tra etica e politica, Roma, Carocci.
Chatterjee P.
2007 Oltre la cittadinanza, Roma, Meltemi.
Goody J.
2008 Il furto della storia, Milano, Feltrinelli
Hannerz U.
2001 La diversità culturale Bologna, il Mulino.
Koser K.
2009 Le migrazioni internazionali, Bologna il Mulino.
Maalouf A.
2007 L’identità, Milano, Bompiani.
Pinto Minerva F.
2002 L’intercultura, Bari-Roma, Laterza.
Sartori G. 2001
2001 Pluralismo, multiculturalismo ed estranei. Saggio sulla società multietnica, Milano, Rizzoli.
Todorov T.
1991 Noi e gli altri, Torino, Einaudi.