di Laura Cerasi
Abstract
Nelle diverse accezioni che il concetto di “popolo” assumeva nel passaggio tra Otto e Novecento, si rifletteva il misurarsi della cultura politica con le trasformazioni introdotte nel corpo sociale dall’affermarsi di sistemi democratici di partecipazione e rappresentanza: dal protagonismo del movimento operaio europeo organizzato in sindacati e partiti, al suo viceversa essere oggetto di appelli, timori e riflessioni provenienti dalle più diverse parti politiche. Nell’esaminare le posizioni assunte nell’ambito della cultura del tardo positivismo liberale conservatrice – in particolare i contributi, di orientamento liberale conservatore, di Emile Boutmy, Alfred Fouillée, Edmond Demolins – emerge come la singolarizzazione anti-universalistica nella concezione del “popolo” andasse a toccare la riflessione sulla sovranità e la rappresentanza, per convergere nel campo della contro-democrazia. Intesa, come nella proposta di Pierre Rosanvallon, come una prospettiva pessimistica nei confronti della democrazia, sospettosa del potere popolare e del suffragio universale, diffidente rispetto all’autonomia del potere politico consentita dai meccanismi della rappresentanza, timorosa di un ritorno al dispotismo di Ancien Régime. Il concetto di sovranità del popolo veniva sottoposto a una serie di limitazioni, e considerato “un principio negativo e contingente”, impossibile da realizzare nella realtà: collocandosi così su sul piano della contro-democrazia correttiva, volta a raddrizzare le storture dell’uguaglianza nata dalla Rivoluzione Una posizione lontana dalle spinte reazionarie, ma proprio per questo particolarmente indicativa di un tessuto medio, improntato alla tiepida diffidenza nei confronti dei sistemi democratici realmente esistenti, valutati con il metro della storia e dell’esperienza “positiva”.
Abstract english
“People”, singular national. Emile Boutmy, between pedagogical optimism and anti-democratic pessimism
The establishment of participatory and representative democracies led to transformations in society that influenced the concept of “people” between the XIX and XX Century. An analysis of the liberal-conservative oriented contributions of Emile Boutmy, Alfred Fouillée, Edmond Demolins illustrates how their remarks on this concept centred on the ideas of sovereignty, representation and counter-democracy –this last one meant as a pessimistic perspective toward democracy, suspicious of people’s power and universal suffrage, distrustful of the autonomy allowed to political power by a representative democracy, and afraid of a return to the Ancient Regime despotism. The concept of popular sovereignty was considered “a negative and contingent principle”, impossible to be actually realized: a perception imbued with lukewarm wariness towards the existing democratic systems, valued with the meter of history and “positive” experience.
Fra le cause che forgiano un popolo, le forze naturali sono quelle che hanno il maggior peso e la maggiore efficacia. Tali forze sono, ad esempio, la configurazione del suolo, la disposizione delle montagne e dei fiumi, dei continenti e del mare, la mitezza o il rigore del clima, l’abbondanza o la scarsità dei frutti della terra […]. Tali cause sono ciò che Taine, nella sua memorabile teoria del 1863, chiamava il milieu, l’ambiente […]. Anche oggi, con il loro peso e la loro persistenza, esse perpetuano, fanno rinascere, dopo qualche passeggera eclissi, i caratteri profondi e le pieghe ereditarie che hanno fin dall’origine impresso alle prime generazioni (Boutmy 1900, 3-4).
A riproporre ancora il “sistema” formulato da Hippolyte Taine come indispensabile strumentazione per perimetrare i contorni di un “popolo”, non era qui un giovane discepolo. Pubblicato nel 1900, l’Essai d’une psychologie politique du peuple anglais au XIX siècle di Emile Boutmy era invece l’opera matura di un affermato studioso, autore di informati testi di storia costituzionale e soprattutto fondatore all’indomani della sconfitta di Sedan della scuola francese di scienza politica, L’École libre de sciences politiques, di cui peraltro Taine aveva redatto il manifesto programmatico.
Singolare, nazionale
Nel collocare, in apertura della sua trattazione, un riferimento all’influenza delle forze naturali nel plasmare i caratteri profondi di un popolo, Boutmy riproduceva l’assunto esposto in maniera sistematica nell’Introduzione all’Histoire de la littérature anglaise. Dove, come è noto, Taine postulava una fondamentale “continuità fra mondo naturale e mondo storico”, una trama fitta di condizionamenti la cui decifrazione consentiva di leggere un’intera civiltà “sotto il segno dell’intelligibilità scientifica” (Pozzi 1993, 144-47). A fondamento delle manifestazioni spirituali di una civiltà – la religione e l’arte, ma anche la letteratura, la filosofia e la scienza – si rinveniva una struttura psicologica profonda e persistente nel tempo, espressione a propria volta delle condizioni naturali, etniche e storiche entro cui, in un momento topico del proprio passato, un popolo si era formato una volta per tutte. Il “carattere” di un popolo, il suo “temperamento”, era allora non solo “la fonte primaria e più ricca di quelle facoltà principali dalle quali derivano gli avvenimenti storici”, ma doveva essere considerato “come il riassunto di tutte le sue azioni precedenti, vale a dire come un peso, non tanto infinito poiché tutte le cose in natura sono limitate, ma sproporzionato al resto e quasi impossibile da sollevare, dato che ogni minuto di un passato quasi infinito ha contribuito ad appesantirlo” (Taine 1866, XXV-XXVI). Questo “peso sproporzionato e quasi impossibile da sollevare” posto all’origine di tutte le manifestazioni delle civiltà esistenti, e costituito dal loro “carattere”, consentiva la rigorosa applicazione di categorie di causalità allo studio delle scienze umane, giacché occorreva riferire in modo sistematico le manifestazioni delle società umane a quella “legge delle mutue dipendenze” in base alla quale tutti gli aspetti possono essere ricompresi in un corpo unitario. “Vi è dunque un sistema nei sentimenti e nelle idee umane, e il motore primo di tale sistema sono taluni tratti generali, taluni caratteri dello spitrito e del cuore, comuni agli uomini di una razza, di un secolo o di un paese” (Ibid., XVIII).
Una civiltà fa corpo, e le sue parti si tengono alla maniera di un corpo organico […]. La regola, in una civiltà, è la presenza in ciascuna grande creazione umana di un elemento produttore egualmente presente nelle altre creazioni circostanti, con ciò intendo una certa facoltà, attitudine, disposizione efficace e importante che, avendo carattere proprio, lo introduce entro tutte le operazioni alle quali partecipa, e secondo le sue variazioni fa variare tutte le opere alle quali concorre (Ibid., XXXIX-XL).
Interdipendenza, organicità, continuità. La persistenza di un esplicito retaggio tainiano ancora ai primi del Novecento non era un vezzo del solo Boutmy, né era circoscritto all’ambito dell’École libre. Secondo analoga scansione tematica, e lessicale, veniva impostato da Jacques Bardoux, (senatore radicale, scrittore di cose politiche, membro dal 1925 dell’Académie des sciences morales et politiques e rimasto poi attivo durante il regime di Vichy) uno studio non accademico della psicologia sociale dell’Inghilterra. Per accostarsi alla quale era ritenuto necessario “conoscere i tratti che, sotto la secolare pressione della razza, dell’ambiente e delle tradizioni hanno improntato quelle intelligenze e quelle volontà di un’originalità particolare” (Bardoux 1906, 2). La stessa ipotesi epistemologica a fondamento dello studio della psicologia sociale dei popoli era tributaria dell’assunto tainiano per cui “allo stesso modo che, in fondo, l’astronomia è un problema di meccanica e la fisiologia è un problema di chimica, altrettanto la storia è in fondo un problema di psicologia” (Taine 1866, XLV, corsivo nell’originale). I lavori accomunati dall’intento di studiare i fenomeni collettivi, riconosciuti come la principale manifestazione delle società contemporanee, attraverso l’analisi dei fenomeni psichici ad essi sottesi hanno conosciuto come è noto una vera “esplosione” negli anni a cavallo dei secoli: da Gabriel Tarde, a Gustave Le Bon, a Scipio Sighele, l’effervescenza degli studi e l’intensità del dibattito da essi suscitato testimoniavano della cogenza della questione (su cui vedi, da ultimo, Palano 2002).
Il fatto che alcuni fra i principali protagonisti della stagione di studi sulla psicologia collettiva fossero autori non più giovani costituiva ragione non ultima della persistenza di stilemi concettuali più risalenti, elaborati negli anni di maggior incidenza del positivismo: Gabriel Tarde, Emile Boutmy, Alfred Fouillée, Edmond Demolins erano nati fra gli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento. La genealogia delle idee in gioco al passaggio dei secoli recava ancora la traccia dello choc generato dalla guerra franco-prussiana, e del cambio di paradigma che a suo tempo Federico Chabod, con intuizione che vale la pena di riprendere, aveva condensato nel passaggio dalla “fede nei sistemi politici fondati sull’eccellenza della natura umana” al “desiderio di star ben aderenti alla realtà […] con la vigile guida del passato”: “realismo, forza, scetticismo per le grandi affermazioni ideali, utili solo come strumento tattico: questi erano i frutti delle grandi vittorie prussiane del ’70” (Chabod 1990, 94-103). Frutti che nella crisi morale innescata da Sedan e Metz e dalla capitolazione di Parigi, come Ernest Renan aveva mostrato ne La Réforme intellectuelle et morale, conducevano a vedere nella democrazia il principio e il segno dei mali della Francia sconfitta:
la guerra è l’opposto di quella mancanza di abnegazione, di quella asprezza nella rivendicazione dei diritti individuali, che costituisce l’essenza della democrazia moderna […]. La democrazia è il più forte dissolvitore dell’organizzazione militare: la vittoria tedesca è stata la vittoria dell’uomo disciplinato su colui che non lo è […]; ma è stata anche, simultaneamente, la vittoria dell’antico regime, del principio che nega la sovranità del popolo e il diritto delle popolazioni a decidere del loro destino (Ibid., 95).
Nel generalizzarsi, con la crisi morale portata dalla guerra franco-prussiana, delle riserve sulla sovranità popolare, il suffragio universale, la rappresentanza democratica che avevano accompagnato fin dall’origine il regime nato dalla Grande rivoluzione, si inaspriva la tensione, propria della vicenda della modernità politica, fra il postulato dell’eguaglianza, individualità e autonomia giuridica delle volontà che formano il popolo sovrano, e l’imperativo di astrazione cui tale entità viene sottoposta affinché possa accedere alla sfera della cittadinanza democratica, su cui ha insistito Pierre Rosanvallon. E nel quadro di tale tensione, di recente richiamata all’attenzione degli studiosi (Scuccimarra 2009), il “popolo sovrano”, “introvabile” (Rosanvallon 1998) perché disincarnato e privato di consistenza sociale, viene fatto oggetto di un processo di oggettivazione, di radicamento in una realtà “positiva”, nella natura e nella storia.
Nella cultura del positivismo post-1870, si procedeva ad una definizione del “popolo” non più nei termini di una condizione astratta ed universale, ma di una lenta formazione nel tempo, debitrice della geografia, del clima, delle condizioni atmosferiche, della composizione etnica. Il “popolo” così radicato nella storia veniva assunto nel suo insieme, indifferenziato al proprio interno, e definito dalla sua qualificazione nazionale: il dato della diffusa naturalizzazione della dimensione nazionale nella definizione del “popolo” era tratto peculiare e persistente della cultura del tardo positivismo, fino al passaggio fra Otto e Novecento. Il dimensionamento che “naturalmente” le società assumevano entro lo spazio nazionale era il presupposto delle riflessioni sui caratteri dei popoli, singolarmente definiti: su rispettive e peculiari virtù, suoi vizi, orizzonti politici e culturali, potenzialità e acquisizioni, e financo poteri costituzionali. Era del resto ancora Taine che, per identificare il “motore” che conferiva caratteri propri ad una civiltà in ciascun momento della sua storia, lo aveva situato in un principio di individuazione: “È in questo intervallo tra la rappresentazione particolare e la concezione universale che si trovano i germi delle più grandi differenze umane” (Taine 1866, XXI), cristallizzate in ciascun popolo.
L’estensione del naturalismo storico post-tainiano, con il costante riferimento al fondamento naturale e storico di ogni aspetto della vita individuale e sociale, alla determinazione dei caratteri del “popolo” gravava così il soggetto portatore della sovranità di un “peso quasi impossibile da sollevare”, portato dalla natura e dalla storia. Come ha osservato Luisa Mangoni (1985, 13), si trattava di un peso che ne limitava l’espressione della volontà, e ne circoscriveva la valenza entro un prevalente “punto di vista nazionale”. La declinazione anti-universalistica del “popolo” attraversava la produzione culturale a diverse latitudini producendo esiti differenziati, la cui articolata varietà è stata attentamente scrutinata: dalle considerazioni di Zeev Sternhell, riprese da Vittore Collina (2003) sull’ascendenza tainiana del determinismo della “terra e dei morti” nel nazionalismo di Maurice Barrès, peraltro esplicitamente rivendicata, alle sempre perspicue osservazioni sulle radici tardo positiviste del nazionalismo italiano e francese svolte da Claudio Cesa (1980) alle complesse genealogie del corporativismo autoritario, riannodate da Michele Battini (1985) al convergere dell’eredità del positivismo comtiano con la critica all’individualismo postrivoluzionario. Luisa Mangoni ha osservato come, fra le diverse letture di Taine circolanti nel dibattito culturale italiano, il richiamo al maestro del positivismo fosse meno presente fra gli storici, e più insistito piuttosto presso gli scienziati sociali, fino a lambire la scienza giuridica. Da Cesare Lombroso, a Gaetano Mosca, a Vittorio Emanuele Orlando, “Taine diveniva così punto di riferimento essenziale per una critica non teorica, ma storicamente fondata, al ‘regime parlamentare puro’ nato nell’esperienza francese e a da essa mutuato dal ‘liberalismo dottrinario’ italiano”, mentre in Scipio Sighele il “metodo” dell’osservazione sperimentale e sistematica dava luogo alla radicalizzazione della critica al principio della rappresentanza, espressa nell’antiparlamentarismo assoluto dell’opuscolo inequivocabilmente intitolato Contro il Parlamentarismo, del 1895. Assimilando anche l’assemblea parlamentare, in quanto tale, ad una “folla”, ne discendeva secondo Sighele che i suoi comportamenti andavano ascritti alla sfera della dimensione collettiva, dominata dalle leggi dell’atavismo e dell’imitazione, risultando perciò incapace di decisioni razionali e “politiche” (Mangoni 1985, 103, 168).
Ma anche senza spingere lo sguardo in direzione degli esiti nazionalisti, autoritari e corporativi, la tendenza all’individuazione particolaristica del “popolo” declinato “al singolare” toccava il nodo sensibile della rappresentanza, giacché altrettanto singolari, storici, anti-universalistici dovevano essere i meccanismi istituzionali incaricati di rappresentarlo. Ciò emergeva con evidenza nel nesso razze latine-cesarismo, generalizzato da un testo non specialistico ma di largo impatto come la tanto spesso citata Europa Giovane di Guglielmo Ferrero. Nel suo resoconto di viaggio, uscito nel 1897, Ferrero connetteva retaggio tainiano, stereotipo dell’antagonismo fra le civiltà latine e anglosassoni-germaniche, e forma della sovranità. Era questa, infatti, a mutare in funzione delle disposizioni della “race”, naturalizzando l’opposizione tra il dispotico cesarismo latino e l’individualismo aggressivo e industrialista dei popoli nordici, coniugando piuttosto disinvoltamente attitudini culturali, operosità economica e forme di governo. Le “razze” latine – Spagna, Francia, Italia – apparivano destinate alla decadenza perché umanistiche, improduttive e tendenzialmente cesaristiche. I popoli “latini” erano propensi a spogliarsi della propria sovranità a favore di guide carismatiche che ne compendiassero le caratteristiche profonde; al contrario, le “razze” anglosassoni, individualiste, custodivano gelosamente la propria libertà, fondata sul lavoro, e alimentavano un capitalismo industriale tendente alla crescita inarrestabile e all’espansione imperialista. E il momento presente, concludeva Ferrero, testimoniava dell’ineluttabile “agonia del cesarismo, che le società latine rappresentano ancora”. “Il cesarismo è la società governata da classi che non rappresentano il lavoro produttivo; che vogliono godere i piaceri del senso e le alte soddisfazioni intellettuali e artistiche, senza avvilirsi nella occupazione brutale di produrre, con la pazienza, qualche cosa”; mentre
tutte le forme sociali giovani tendono al gigantismo; hanno in sé una febbre di grandezza che le sospinge quasi a violentare le leggi della natura. […] Questa capacità di cose gigantesche noi la troviamo invece tra le società germaniche, nella energia con cui esse si sono applicate a organizzare su proporzioni inaudite l’industria moderna, e a modificare sopra un nuovo piano tutta la moderna vita morale (Ferrero 1897, 418-420).
La vasta eco della divulgazione di Ferrero è ben nota, e così anche la ricaduta pesante dell’antiparlamentarismo di fine secolo (su cui vedi le osservazioni di Banti 1995). Qui merita avvertire come la sovrapposizione e indistinzione di piani fra i concetti di razza, popolo, società, civiltà e nazione, evidente in Ferrero, vada districata, per il nostro discorso, dall’intreccio con gli esiti successivi, soprattutto laddove recassero i riconoscibili crismi del nazionalismo razzista. La storiografia ha largamente scavato nelle genealogie del razzismo moderno, inteso come componente fondamentale e strutturante delle culture politiche autoritarie e corporative del ventesimo secolo, riconoscendo al determinismo positivista un ruolo importante (ricordo almeno Battini 1995, Battini 2010, Battini, Matard-Bonucci 2010, Sternhell 2008, Sternhell 2007, Mosse 2007 Traverso 2002, Nani 2006, Mucchielli 1998). Ma l’evocativa e fortunata contrapposizione fra le “razze” latine e anglosassoni, che si contrapponevano in due “tipi” distinti di psicologia collettiva, classica e germanica, a fondamento delle differenti fisionomie assunte dalle civiltà delle nazioni contemporanee, andava ricondotta piuttosto alla frequente intercambiabilità nell’uso dei termini razza, nazione e popolo a fondamento del naturalismo tainiano.
La razza è emigrata, come l’antico popolo ariano, e il cambiamento del clima ne ha alterato tutta l’economia dell’intelligenza e tutta l’organizzazione della società. Il popolo è stato conquistato, come la nazione sassone, e la nuova struttura politica gli ha imposto delle abitudini, delle inclinazioni che non possedeva (Taine 1866, XXII).
Regina Pozzi ha osservato come all’enfatizzazione del ruolo della razza nella determinazione del corso storico, corrisponderebbe in Taine un suo intreccio con altri fattori biologici ed ambientali:
nell’analisi essa [la race] fa tutt’uno con la disposizione psicologica; e per di più, ad aumentare la confusione ed ambiguità di tutta questa concettualizzazione, i suoi effetti sono malamente distinguibili da quelli del clima, che pare spesso diventare il fattore determinante del divenire (Pozzi, 1993, 150).
Su questa sovrapposizione di piani, il fuoco dell’attenzione è puntato sulla forma di governo, e in definitiva sulle prospettive di crescita e sviluppo dei popoli nell’orizzonte di industrialismo e imperialismo. Era qui un punto di contatto sensibile, in cui la singolarizzazione anti-universalistica nella concezione del “popolo” andava a toccare la riflessione sulla sovranità e la rappresentanza, per convergere nel campo della contro-democrazia. Intendendo, per il momento, il campo della contro-democrazia nell’accezione proposta da Pierre Rosanvallon (2006), laddove individua nel pensiero liberale ottocentesco, da Montesquieu in poi, una prospettiva pessimistica nei confronti della democrazia, sospettosa del potere popolare e del suffragio universale, diffidente rispetto all’autonomia del potere politico consentita dai meccanismi della rappresentanza, timorosa di un ritorno al dispotismo di Ancien Régime.
Varianti pedagogiche: Fouillée, Demolins, Boutmy
Anche Alfred Fouillée nella Psychologie du peuple français riteneva di perimetrare la sua argomentazione entro i confini di un unitario ed “organico” carattere nazionale, distinto in ciascun popolo. Sebbene “l’influenza del clima, così esagerata da Monetsquieu, non è che uno dei fattori dell’evoluzione storica”, tuttavia l’ambiente sia fisico che sociale si strutturava, comunque, entro i confini della nazione: “nella mutua dipendenza degli individui gli uni in rapporto agli altri e anche in rapporto a coloro che li hanno preceduti […] si dà ‘organismo’ nazionale, vale a dire una solidarietà tale che la spiegazione di una parte deve essere cercata nel tutto, non meno che quella del tutto sulla parte” (Fouillé 1903, 10-37). Fouillée non intendeva insistere sui tasti dell’organicismo e del determinismo; presentava anzi il suo studio sulla Psychologie du peuple français come facente parte di un più ampio Esquisse psychologique des peuples européens, con il quale mirava a contrastare la tendenza all’oggettivazione naturalistica della storia, avversare il diffuso “fatalismo psicologico e storico” e le sue conseguenze “scoraggianti”, dimostrando l’insufficienza della teorie “pessimistiche” che postulavano la priorità dei fattori naturali nel forgiare un popolo, a favore invece di quelli culturali e sociali. “Noi ricercheremo quali siano le diverse basi del carattere nazionale, il legittimo peso che debba essere attribuito alle razze, e riconosceremo una volta di più che la storia umana non può essere ricondotta alla storia naturale” (Ibid., III-IV). Tuttavia, il fondamento fisico-geografico delle popolazioni non era sostanzialmente messo in questione, e l’individuazione del popolo era sempre accompagnata da una qualificazione nazionale. Ogni “popolo” – al singolare – presentava un insieme di idee-forza, che sortiva ad un
determinismo collettivo, una parte del quale è dentro di noi e le altre parti in tutti gli altri membri della comunità. Tale sistema di idee mutualmente interdipendenti costituisce la coscienza della nazione, che non risiede in un cervello collettivo, ma nella totalità dei cervelli individuali, e che perciò non è una semplice somma di intelligenze (Ibid., 2).
Un’accezione di “popolo” fortemente debitrice del determinismo tardonaturalistico era suscettibile di esiti non univoci. Scopo di Fouillée era infatti non soltanto confutare l’esistenza di segnali di “degenerazione” nella psicologia del popolo francese, ma anche prospettare come, attraverso l’impegno educativo, i caratteri morali di un “popolo” potessero essere rinforzati e indirizzati verso il miglioramento della performance complessiva della comunità nazionale. Era, questa, una funzione nazionale, più che civile, assegnata all’educazione, testimoniata dalla vasta serie di scritti dedicati da Fouillée al tema scolastico ed educativo (Fouillée 1891; 1902; 1901; 1998) e riflessa dall’ampiezza del dibattito su questi temi (per cui, particolarmente per il nesso con la riforma degli studi classici, rimando a Cerasi 2012).
Come aveva dimostrato qualche anno prima la vasta eco suscitata dal pamphlet di Edmonde Demolins, À quoi tient la superiorité des Anglo-Saxons, dove il pubblicista marsigliese si interrogava sulle ragioni della supremazia britannica, in termini di produzione industriale e di espansione coloniale: “La superiorità degli Anglosassoni! Se non la si riconosce, la si subisce e la si teme […]. Non possiamo muovere un passo nel mondo, senza incontrare l’Inglese. Non possiamo volgere lo sguardo sui nostri antichi possedimenti, senza vedervi sventolare il vessillo inglese”. E venire a capo del “segreto di tal prodigiosa capacità di espansione, di tale straordinaria potenza di civilizzazione”, rappresentava ormai secondo Demolins “per noi e i nostri figli, una questione di vita o di morte” (Demolins 1897, I-IV). La risposta veniva formulata fin dalle prime pagine dell’opera. Demolins sosteneva che la ragione del successo dell’imperialismo inglese risiedesse nell’energia e nella capacità espansiva del “popolo” anglosassone, che tuttavia non era il prodotto esclusivo di fattori etnico-storico-culturali – come aveva invece affermato Ferrero nella sua Europa giovane, pubblicata nello stesso anno – ma del sistema educativo. Emulando l’educazione del “popolo” anglosassone, si poteva aspirare ai suoi successi imperiali.
L’operetta raggiungeva in poco tempo le ventisei edizioni, venendo tradotta nelle principali lingue europee. Al quindicesimo migliaio, gli editori pubblicavano un’appendice dove compendiavano ampi stralci delle principali recensioni ricevute dall’opera. Da cui risultava evidente il diffuso favore con cui il pamphlet di Demolins era stato accolto. Marcel Prévost lamentava che “non si possa più, in questo momento, trascorrere una serata fuori casa, senza incontrare qualcuno che, ipnotizzato dal libro di Demolins, dichiari che è necessario adottare il regime anglosassone, o morire” (Ibid., Appendice des éditeurs, 447). Il favore era espresso da parte di un ampio ventaglio di tendenze politiche (anche se dalla collazione mancavano, forse non a caso, recensioni da parte di autori socialisti): certo, con sfumature significative. Edouard Drumont nella “Libre Parole”, dopo averne più volte raccomandata la lettura, non ne sposava la tesi ma esortava i francesi ad una riscossa nazionale: “Se gli Inglesi calpestano la Francia sotto i piedi, non è perché essi sono Inglesi, è perché, momentaneamente almeno, i Francesi non sono Francesi” (Ibid., 448). In generale, se ne sottolineava da più parti il carattere “scientifico”, ricordando la stretta osservanza del metodo di Le Play dichiarata dall’autore, direttore del periodico di professione leplayana “La Science Sociale”; se ne apprezzava la “crudeltà” dell’analisi – quasi un “esame di coscienza della Francia” – si riconosceva l’incontestabilità dei “fatti” rilevati, la cui consapevolezza poteva diventare “salutare”: come osservava Paul Bourget nel “Figaro”,
Quando si vede che un popolo rivale è così grande, non lo si invidia, ché ciò è indegno; non lo si nega, ché ciò è inutile; non lo si copia, ché ciò è servile; si cerca di comprendere quali leggi della natura politica esso abbia seguito nel suo sviluppo, e quando si è creduto di coglierle, si cerca di praticarle a propria volta all’interno della propria tradizione e della propria razza, ed ecco perché io non saprei concludere queste note meglio che invitando tutti i buoni Francesi a leggere il libro di Demolins sugli Anglosassoni (Ibid., 446).
L’intensa “sensazione” suscitata non era dunque di carattere controversisitico, ma largamente adesivo rispetto alla diagnosi presentata, e soprattutto alla “cura” proposta, vale a dire un rinnovato impegno sul terreno della formazione del carattere nazionale. Nella lunga recensione nel quotidiano “Le Figaro”, Jules Lemaître osservava che, dopo aver bevuto il “calice amaro” rappresentato dalla lettura del libro di Demolins, una via d’uscita si profilava: “Che fare? È molto semplice. Acquisire le virtù che ci mancano, e che sovrabbondano presso l’Anglosassone; sviluppare fra noi la volontà, l’abitudine a contare su se stessi, lo spirito di iniziativa, l’energia” (Ibid., 421).
Ecco che si chiariva la ragione della vasta accoglienza: aver posto la questione del carattere nazionale su un piano etico consentiva di non essere del tutto pessimisti. La virtù non è un dato naturale, si può raggiungere attraverso opportuni esercizi di pedagogia nazionale. Lemaître era esplicito circa i “rimedi”: “L’opinione pubblica può agire sui costumi, e sull’opinione pubblica si può agire” (Ibid., 424). Si rinviene dunque una dimensione ottimistica nell’approccio pedagogico alla definizione dei caratteri nazionali: è possibile formare un popolo, qualora si adottino gli strumenti adeguati. Tuttavia l’ansia diffusa che sottendeva al grande favore riservato al libro di Demolins rivelava il problema nuovo a cui il testo, impostato su categorie analitiche peraltro piuttosto risalenti, intendeva dare una risposta: ed era la tensione competitiva fra nazioni per il ruolo-guida, misurato in quegli anni con il metro dell’imperialismo. Un “popolo” era tale e si distingueva per le sue attitudini espansive; se queste non erano innate, andavano suscitate.
Vi erano qui significative analogie con l’intento competitivo che aveva animato Boutmy nel promuovere l’École libre de sciences politiques. L’antenata di SciencesPo era stata fondata nel 1871 per reagire alla sconfitta di Sedan, vissuta come inflitta dalle armi tedesche, ma anche dalla sua università, e costruire un luogo di formazione che fosse in grado di misurarsi con la modernità politica. Come direttore dell’École libre Boutmy aveva contribuito ad affermare il metodo sperimentale nello studio delle società contemporanee, confidando nella loro conoscibilità e nella loro fungibilità nella definizione degli strumenti operativi necessari all’élite politica di un paese. In questo senso, coerente con l’impostazione dell’École libre – dove dal 1892 era stato invitato da Boutmy a tenere corsi sul pensiero politico inglese e poi sul socialismo europeo, facendovi le prime esperienze didattiche – era l’interrogativo che attraversava il primo volume dell’Histoire du peuple anglais di Élie Halévy, ossia l’individuazione della ragione che aveva consentito all’Inghilterra di essere risparmiata dalle violente rivoluzioni che hanno rovesciato la Francia. Ragione individuata da Halévy nella diffusione del metodismo come forza stabilizzatrice. Il cambiamento sociale violento era stato evitato grazie alla diffusione del non-conformismo religioso, il metodismo costituendo l’unico efficace antidoto al giacobinismo. Certo, il “popolo” di Halévy, benché decisamente individuato in senso nazionale, si definiva attraverso le sue azioni, la sua storia, le istituzioni che produceva, l’economia che sviluppava, la società che organizzava, le scelte che compiva: il “popolo” qui era la sua storia costituzionale, così come si svolgeva entro confini nazionali. Ma la prospettiva di Halévy (su cui vedi ora Battini 2011) peraltro temporalmente successiva, si muoveva ormai su un piano differente.
Per tornare alle soluzioni “pedagogiche” e competitive di Demolins – o anche di Fouillée, per altri aspetti – esse tuttavia differivano dagli intenti di Boutmy su un punto fondamentale: mentre per Demolins occorreva impegnare “tutto” il popolo nella competizione imperialista, suscitandone le energie e formandone il carattere (Cerasi 2012), ciò che costituiva l’oggetto della sollecitudine di Boutmy non era il popolo nella sua totalità, sia pure indistinta, quanto la creazione di istituzioni adeguate per la formazione di élites nazionali. Il “popolo”, in se stesso, era un’entità inafferrabile, “introvabile”, depotenziata nelle sue valenze politiche, verso le quali, senz’altro, Boutmy manifestava una rosanvalloniana “diffidenza” (Rosanvallon 2006).
Popolo e sovranità, “principio negativo e contingente”
Nel 1904 Emile Boumy pubblicava nelle sue “Annales des sciences politiques” un impegnativo saggio sul tema della sovranità popolare, À propos de la souverainété du peuple, di grande interesse per il nostro tema. Dell’argomento Boutmy non si era in precedenza espressamente occupato; ma il nodo politico delle forme della sovranità era al centro dei suoi studi costituzionali (Boutmy 1887; 1885) e a fondamento della sua azione di organizzatore culturale con l’École libre, ma anche con la Societé pour l’étude de la répresentation proportionnelle (1883). Con À propos de la souverainété du peuple metteva in scena una discussione, riferita da un narratore un prima persona, fra studiosi di discipline diverse (il filosofo, l’erudito, lo psicologo, il giurista, il politico, lo storico, il pubblicista) che analizzavano la questione da punti di vista differenti. Nonostante la forma del divertissement adottata, richiamante il modello della conversazione civile diffusa dallo “Spectator” e dai suoi numerosi epigoni, gli argomenti distribuiti equamente fra i vari interlocutori si strutturavano secondo una linea di accerchiamento stringente, che condensava i diversi punti di attacco del bagaglio retorico della contro-democrazia liberale, verso un concetto in se stesso non definito.
Il fatto che l’oggetto della riflessione, il “popolo”, non venisse messo a fuoco, non era un espediente retorico. Era invece la premessa – bergsoniana, direi, affidata al personaggio “filosofo” – da cui muoveva l’intera trattazione: non vi è corrispondenza fra linguaggio e realtà, fra le parole e le cose. Nella comprensione, come nel giudizio, l’intelletto umano non è in grado di cogliere la natura complessa, simultanea, continua e mutevole del mondo reale, e può solo operare astrazioni tanto razionali quanto imperfette: “In sintesi, l’intelletto impegnato nel riprodurre in se stesso quella realtà immensa, mobile, flessibile e sinuosa che chiamiamo il mondo, non dispone per la sua costruzione che di piccoli materiali solidi, acuminati, simmetrici, le cui forme regolari non aderiscono agli infiniti particolari delle curve reali” (Boutmy 1907, 6). Era proprio tale inconoscibilità che permetteva il gioco di mettere a confronto, su un piano di spassionata retorica e senza possibilità di controprova, le diverse rappresentazioni del concetto. La sovranità del popolo poteva infatti essere posta in questione, sosteneva il narratore, precisamente perché era il frutto di “tre astrazioni”: popolo, sovranità e legge:
La prima è il popolo, vale a dire questa unione di ricchi e poveri, contadini e cittadini, settentrionali e meridionali, civilizzati e barbari, di cui è impossibile affermare qualcosa con nettezza, poiché produce nello spirito un’immagine estremamente confusa. La seconda astrazione è la sovranità, che non è affatto una qualità inerente al popolo, poiché vi sono stati popoli che non sono mai stati sovrani, e altri che lo sono in modo molto imperfetto. La terza astrazione, quella che conferisce un senso alla formula, è l’idea di un ordine che regge le libere azioni, di una legge. Il popolo deve essere sovrano (Ibid., 11).
Ma tale scarto fra realtà e conoscenza, fra concreto e astratto, fra storico e razionale, era anche il presupposto di metodo, che filtrava la maggiore o minore attendibilità degli argomenti presentati, e indicava il percorso seguito dalla costruzione retorica. Infatti il personaggio “psicologo” ricordava subito che il carattere eccessivamente generale del presupposto da cui muovere – lo scarto fra realtà e rappresentazione – poteva essere tale da inficiarne il valore: “Quando un principio che rappresenta una regola della logica si applica a tutto, compreso il ragionamento che occorre fare per dimostrarlo […], può e deve essere rigettato senza discussione dall’uomo positivo” (Ibid., p. 13). L’opposizione fra astratto e concreto, (o reale, storico, organico) era dunque mantenuta nel prosieguo della trattazione, a distinguere concetti di cui si poteva fare solo un uso strumentale e retorico – come la stessa sovranità popolare – e richiami alla realtà fattuale, che perciò portavano maggior peso.
L’esito della discussione portava a convalidare lo scetticismo metodico dell’impostazione: il popolo non può essere realmente sovrano, il suffragio universale, che è l’unico modo per realizzarlo, è insufficiente:
La sovranità del popolo è essenzialmente un principio negativo e contingente; ci si rende ben conto dell’impossibilità di tradurlo nei fatti, di “realizzarlo”: in nessun caso il popolo è, o può essere sovrano. Il suffragio universale, che è l’unico mezzo per realizzarlo che sia stato concepito, presenta delle naturali inadeguatezze, che sono il motivo per cui una società, anche dopo aver esteso il suffragio, si trova ancora molto lontana dall’avere introdotto nelle sue istituzioni la sovranità popolare. Né la sovranità del popolo, né il suffragio universale meritano la glorificazione che ne è stata fatta e il prestigio da cui sono circondati (Ibid., p. 112).
La procedura argomentativa adottata dal personaggio “erudito”, che recava un trasparente richiamo a Fustel de Coulanges, in particolare nella sottolineatura del differente rapporto fra Stato e religione: “Lo Stato antico era profondamente impregnato di religione, e tale carattere è stato mantenuto, seppur attenuato, fino all’affermazione del cristianesimo ufficiale. L’idea di uno Stato laico non è mai entrata nello spirito di un contemporaneo di Pericle” (Ibid., 16), era infatti costruita sull’opposizione fra la concreta fattualità della democrazia degli antichi e l’astratta prescrittività della sovranità popolare moderna. Mentre la democrazia nella Cité antique riposava sugli antenati, la tradizione, la religione e il rispetto delle leggi esistenti (“Lo Stato non era allora alle dipendenze del cittadino; il cittadino non aveva coscienza di avere fatto lo Stato, ma di essere accolto, adottato, protetto dall’antica polis e dai suoi dei”), “oggi il nodo del problema politico risiede nell’individuo” (Ibid., 19). E il principio dell’individualismo moderno rendeva immateriale la sovranità, perché appartenente ad un popolo realmente “introvabile”: “questo popolo è una moltitudine immensa, inafferrabile, che non ha, in ogni caso, i mezzi per comprendersi e per contarsi” (Ibid., 25). La sovranità del popolo, così scorporato, non era che un postulato a carattere trascendente e metafisico, allo stesso titolo della sovranità per diritto divino:
La sovranità del popolo, che è in fondo il contrario della sovranità per diritto divino, non ne è molto differente nell’applicazione […]. Questo popolo è, come Dio, un personaggio che non soltanto non può esercitare il potere da se stesso, ma non può, non più di Dio, delegarlo attraverso un mandato esplicito e preciso. […] Sia Dio che il popolo sono in pratica altrettanto inaccessibili. I loro oracoli non sono decifrati in modo distinto, sono un oggetto di fede (Ibid., 26).
Il personaggio “psicologo”, il più attento al dato concreto e positivo, muoveva una definizione renainiana del popolo, per confutarla: “Un popolo è la totalità degli individui che hanno coscienza di appartenere ad una medesima nazione. Il potere sovrano è quello che non deve rendere conto delle sue decisioni a nessun altro potere”. Ma è l’origine della sovranità a non poggiare su alcun dato positivo.
Ora, da dove discende la qualificazione di sovrano per il popolo? forse in virtù di un diritto positivo inerente ad ogni individuo? Ma questo diritto avrebbe bisogno di essere dimostrato, e non può esserlo senza l’intervento della nozione di Stato, da cui derivano necessariamente per ogni individuo gli attributi che pertengono ai membri dello Stato, vale a dire ai cittadini. Ma questo stesso Stato, che evidentemente è uno stato in sé, astratto, preistorico, che cos’è se non un’unione di individui, di coloro che non hanno avuto il tempo né l’occasione di qualificarsi altrimenti che come individui? Ciò ci riporta a dire che c’è un circolo vizioso e che, nella ricerca di una buona definizione dei termini, l’individuo rinvia allo Stato, lo Stato all’individuo. È questa la debolezza del ragionamento di Rousseau (Ibid., 29-30).
Il 1789 aveva affermato presso l’opinione pubblica il principio della sovranità nazionale solo come principio negativo, in opposizione a monarchia, aristocrazia, corpi. Ma questi non erano principi filosofici, erano fatti storici, “fatti consacrati, circondati da ogni genere di prestigio: l’antichità, la durata del possesso, i costumi, la sanzione della legge e delle opinioni”; in questo senso, la sovranità popolare era un principio essenzialmente “negativo”, non positivo. “Perciò la sovranità del popolo significa semplicemente che la monarchia e l’aristocrazia sono dei cattivi governi; essa non è positiva che per l’insufficienza del linguaggio nell’esprimere le sfumature […]; non è trascendente che per il vantaggio che ciò le conferisce verso gli avversari” (Ibid., 34-35).
Ecco che la coscienza renaniana, il carattere volontario dell’appartenenza al popolo, vengono nullificati da tale obiezione. La volontà di un popolo semplicemente non è positivamente accertabile. Inoltre, è irrealizzabile. Il principio della sovranità popolare si manifestava, nel dominio delle istituzioni, attraverso il suffragio universale. Il personaggio “giurista” sottolineava come i due concetti venissero ormai assunti dall’opinione pubblica come equivalenti, soprattutto dopo il 1848, che ne aveva fatto una “superstizione”. Ma la costituzione del 1875 aveva evidenziato il “vizio organico” della sovranità popolare, ossia la necessità della rappresentanza, il principio della delega, per l’impossibilità di rappresentare direttamente grandi numeri: “una nazione rappresentata non può essere pienamente sovrana” (Ibid., 37). Da ciò discendevano i difetti più gravi della rappresentanza: i troppi gradi di elezione, la non elettività anche dei funzionari, sul modello dello spoils system, l’eccessiva durata del mandato, l’impossibilità dell’unanimità e il principio della maggioranza, che in se stesso è tale da snaturare la sovranità nazionale. Anche la “competenza” acquisita dalle classi popolari è nemica del suffragio universale.
L’operaio di oggi comprende infinitamente più cose, è in grado di avere un parere ragionato su argomenti infinitamente più numerosi di un tempo, e si può dubitare che, fra cinquant’anni, l’uomo delle classi inferiori non abbia a disposizione una quantità di beni, non abbia raggiunto una varietà e livello di cultura di cui ora non abbiamo che un’idea vaga? In quel momento, tutti gli elettori si lamenteranno del suffragio universale come di un interprete infedele e incompleto delle loro opinioni; e ciò per il progresso stesso della democrazia, che sarà obsoleta e squalificata (Ibid., 50).
Il suffragio universale era allora il “male minore”, un “mediocre espediente” lontano dalla realizzazione della sovranità popolare.
La contraddizione fra il voto popolare e il voto parlamentare era resa evidente dall’istituto del referendum, espressione massima della sovranità nazionale. Il personaggio “politico” osservava che una consultazione referendaria può avere successo in misura inversa alla sua complicazione: non a caso, i plebisciti sono stati efficaci quando hanno ratificato un fatto semplice ed elementare, il colpo di Stato, oppure quando si sono appoggiati su un pregiudizio popolare.
Ma da cosa sono determinati il consenso o la contrarietà? Ogni osservatore spassionato riconoscerà che gli argomenti che fanno presa sul popolo sono generalmente meno numerosi, meno vari, più semplici di quelli che agiscono sui suoi rappresentanti; generalmente sono anche di altra natura. Ogni progetto che sia difficilmente intelligibile ha perso in partenza, ogni progetto complicato nell’applicazione ha grandi possibilità di essere respinto; al contrario, tutti i progetti che assecondano un pregiudizio popolare, come fu il caso della proibizione delle macellerie ebree, otterrà senza sforzo un consenso irriflesso (Ibid., p. 53).
Dove non è possibile la consultazione diretta, occorre la rappresentanza, e nasce la classe politica: “una classe speciale, classe insolente, violenta, loquace e tenace, molto severa nel controllo dell’uso che i deputati fanno del loro potere, bassamente adulatrice nel momento in cui deve fare appello alla moltitudine” (Ibid., 55). Per questo i progetti di legge tendevano alla soddisfazione del più grande numero di elettori. E finalmente, nell’atto di spogliarsi periodicamente della sua sovranità per conferire il mandato alla classe politica, veniva messo a fuoco il “popolo”. Ed era un popolo bambino:
Il popolo non comprende che le cose semplici; bisognerà allora semplificare, a torto a o a ragione, il testo dei progetti di legge; Di più, il popolo è come i bambini: non è soddisfatto se la lotta non è violenta, se non ci sono vincitori e vinti, vuole che la minoranza si pieghi gemendo sotto il giogo della maggioranza, che il peso della forza e l’insolenza della vittoria si facciano crudelmente sentire […] I vantaggi che vengono riconosciuti al suffragio popolare, quello di essere generalmente impeccabile, di essere generalmente d’accordo con l’interesse pubblico, di essere anche generalmente l’espressione fedele della volontà nazionale, non sono che l’eco delle acclamazioni irriflesse che hanno salutato la vittoria sui propri rivali. Il suffragio è una cosa umana, e come tale porta con sé le insufficienze e le inadeguatezze sulle quali occorre aprire gli occhi, se per un istante li si ha chiusi (Ibid., pp. 59-61).
Il personaggio “storico” intendeva invece ribaltare, secondo lo schema dell’evoluzionismo spenceriano, i termini dell’antagonismo astratto/concreto impostato in precedenza, e considerare il suffragio universale non come forma della sovranità popolare, ma dell’uguaglianza politica: da questo punto di vista, “il suffragio universale non è una scoperta puramente filosofica […], è anzitutto un fatto necessario, che si è prodotto naturalmente con la trasformazione della società umana” (Ibid., 64). Ma anche se il suffragio universale non è un principio astratto ma un fatto, prodotto di una lunga trasformazione che discende dal principio della libertà di pensiero affermata con il Rinascimento e soprattutto con la ricerca scientifica, tuttavia non è una “legge organica” di tutta la società, bensì un effetto “contingente”. È un prodotto dell’opinione pubblica e della sua “trinità”: la stampa, il diritto di associazione, il diritto di suffragio. A cui si aggiunge il governo parlamentare (e poi ancora l’istruzione, la stampa popolare, la ferrovia). Ma anche se non è una legge organica, non si può tornare indietro:
Con i suoi due organi, il diritto di suffragio più o meno esteso e il governo parlamentare […] può, come la monogamia e la proprietà individuale, passare per un prodotto della selezione naturale, per un bene permanente e sicuro, risultato di apporti successivi, che nessun incidente ha interrotto da cinquant’anni a questa parte (Ibid., 80).
Ma proprio in quanto prodotto della selezione naturale della storia, non poteva essere considerato un diritto assoluto, ma un prodotto dell’esperienza, senza altra autorità che quella derivante dai fatti accertati. Il carattere di necessità riconosciuto al suffragio universale, che oltre ad essere un prodotto storico irreversibile, assolveva anche ad una funzione pacificatrice come un elemento di stabilizzazione sociale, non ne faceva però la migliore soluzione. Il suffragio universale poneva gli interessi della classe più numerosa al di sopra dell’interesse nazionale, del patriottismo; rendeva il populismo la maggiore virtù dell’uomo politico. Il suffragio universale era una carta forzata, che faceva però perdere la partita: tutti i popoli che l’hanno giocata “devono rassegnarsi a subire, una dopo l’altra, le conseguenze sempre più brutali e ciniche della forza e del numero”. Sarebbe stato allora opportuno ritardarlo, o limitarlo il più possibile:
Noi siamo, ad esempio, con quelli che come Taine credono che il suffragio a due gradi sia un bene per la nazione. Noi siamo con quelli che, in Italia e in Spagna, conservano il più a lungo possibile i residui del regime censitario. Noi siamo altrove con i sostenitori della rappresentanza dei corpi, della rappresentanza degli interessi, del voto plurale, etc. Questi diversi espedienti non ci salveranno; ci aiuteranno a salvare per un po’ di tempo le cose preziose a cui per noi sono legati l’interesse della vita comune e la ragione d’essere dell’organizzazione sociale: la Giustizia, l’Onore, la Libertà, la Patria. Senza di questo, tutto sarà presto cancellato, dagli appetiti ingloriosi e bassi delle masse sofferenti (Ibid., 86-87).
Il principio dell’eguaglianza politica non veniva però accettato senza contraddittorio. Non rispondeva infatti ad una condizione reale: l’ultimo personaggio, “publicola”, riproponeva ancora l’antitesi fra realtà e astrazione, osservando che l’uguaglianza politica non era affatto un prodotto necessario, per quanto contingente, dell’evoluzione storica:
L’uguaglianza politica non è per nulla l’affermazione di una uguaglianza reale tra gli uomini; significa solamente che non si terrà più conto delle molteplici ineguaglianze di genere, età, salute, intelligenza, cultura dello spirito, competenza, fortuna. Tutte queste cose e molte altre ancora sono distribuite fra i cittadini in modo ineguale. L’uguaglianza politica non ha dunque alcuna realtà che le corrisponda, alcuna ragione d’essere che la giustifichi; è una pura finzione (Ibid., 88).
L’errore era stato quello di oscillare fra i due estremi del regime seccamente censitario, come sotto la monarchia di Luglio, e del riconoscimento del suffragio a tutti i cittadini indistintamente. Invece andavano valorizzate la competenza e l’interesse. Ma troppa competenza, troppa istruzione non sono un bene, perché portano all’impossibilità di agire; né lo è la troppa mobilità sociale, che produce nuovi ricchi senza principi. Per assolvere bene il compito di elettore è sufficiente il buon senso. E inoltre, è vero che un capitano d’industria ha grande interesse al buon funzionamento dello Stato, ma lo ha anche l’operaio. Il motivo per cui il suffragio universale guadagnava continuamente terreno è che elimina le arbitrarietà, che sono invece presenti nel voto per corpi, nel voto plurimo, nel voto per sindacati. Il suo maggior inconveniente è stata l’eliminazione dei contrappesi, la rimozione di restrizioni, scadenze e attendismi;
con la conseguenza di creare un formidabile piano inclinato, sul quale rotolano a precipizio e senza sosta le azioni. Le istituzioni democratiche sono estremamente parche di avvertimenti, di inviti a non impegnarsi; non attuano alcun sistema di prevenzione; non ci sono freni costituzionali a fronte del fatto compiuto […]. Da questo punto di vista, i modelli del suffragio ristretto, con la loro propensione per la conservazione dello status quo, offrono meno pericoli e maggiore sicurezza del suffragio universale (Ibid., 109).
Il lungo détour attorno al concetto della sovranità del popolo conduceva dunque a una serie di affermazioni limitative, improntate ad una scettica rassegnazione: la sovranità del popolo era “un principio negativo e contingente”, impossibile da realizzare nella realtà, da momento che il popolo non potrà mai essere veramente sovrano; il suffragio universale è il “male minore”, e anche il “minore sforzo”, perché “la realtà, ed anche l’interesse la giustizia intesi nel loro significato autentico, ci porterebbero a concepire un numero infinito di soluzioni, tante quante sono le differenze tra gli uomini”, senza ricorrere a “principi assoluti e permanenti”. “È non tanto per amore della giustizia, quanto per amore della pace, che il genere umano ha preferito rispetto a tante complicazioni un principio iniquo” (Ibid., 112-113). La conclusione di Boutmy non era, tuttavia, interamente pessimistica; certo, il tema era fra i più complessi, ed era sconsigliabile “seguire una via rettilinea in una regione dove si incrociano tante strade senza uscita e tanti sentieri che conducono non si sa dove”. Ma riteneva anche che per occuparsi di tale questione occorreva “una miscela particolare di sentimenti e di idee, ugualmente lontana dal pessimismo e dall’ottimismo. Una sorta di determinismo filosofico, non soddisfatto né della formula di un mondo votato al male e alla sventura, né al progresso incessante verso il bene” (Ibid., 114-115).
La conclusione sconsolatamente conciliante su cui si attestava Boutmy era il suggello della sua posizione rosanvallonianamente contro-democratica, lontana dalle spinte reazionarie, ma proprio per questo particolarmente indicativa di un tessuto medio, improntato alla tiepida diffidenza nei confronti dei sistemi democratici realmente esistenti, valutati con il metro della storia e dell’esperienza “positiva”. Boutmy andava a collocarsi sul piano della contro-democrazia correttiva, alla ricerca di protesi “ortopediche” atte a raddrizzare le storture dell’uguaglianza nata dalla Rivoluzione. In questo senso si situava a pieno titolo nel dominio dell’antipolitica del tardo positivismo, che recideva le proprie radici poste nel pensiero rivoluzionario, rifiutava la genealogia dell’Illuminismo, senza tuttavia sortire alla sanzione organicistica delle disuguaglianze, al reazionario “ordine della gerarchia”. Piuttosto, cercava una composizione difficile fra riconoscimento delle libertà civili e limitazione delle libertà politiche, fra uguaglianza e stabilità, fra democrazia e tecnocrazia, cercando di trascegliere, da un prodotto storico come la democrazia liberale, ciò che può contribuire a preservare un’organizzazione sociale di cui si apprezza la stabilità. Orientandosi, peraltro, verso correzioni abbastanza modeste: come poteva essere la messa allo studio di varie forme di valorizzazione dei corpi intermedi – dal bilanciamento della rappresentanza alla proposta di soluzioni più francamente corporative – senza mai arrivare al rigetto integrale del principio rappresentativo; o l’adozione di dispositivi – come poteva essere il voto plurimo su modello belga – atti a frenare la deriva verso il cesarismo che si vedeva insita nelle democrazie latine contemporanee (Battini 1995; Sternhell 2006).
L’ortopedia che veniva nei fatti proposta da Boutmy era l’opera alla quale egli aveva lavorato tutta la vita, ossia la creazione di una élite delle competenze attraverso un’istituzione di studi superiori – la sua École libre des sciences politiques – in grado di formarla secondo i principi della modernità politica. Il fatto stesso che una élite potesse essere “formata”, a dispetto di quel “peso quasi impossibile da sollevare” che era il retaggio della storia per ciascun popolo, portava ad attenuare il pessimismo di ascendenza tainiana, a prospettare invece una misura di ottimismo pedagogico, laddove si confidava che le capacità (le virtù) si potessero forgiare per mezzo di uno sforzo consapevole, costruire per mezzo di azioni determinate. Il movente competitivo si mostrava nello sguardo puntato ossessivamente oltre Manica, come era il caso degli autori di cui ci siamo occupati: per capire come i britannici reclutavano gli amministratori coloniali, come formavano il carattere, come erano organizzate le scuole, la costituzione, l’impero o i sindacati e il socialismo, da cui la Gran Bretagna aveva “le bonheur”, la felicità di essere risparmiata. (Vedi in tal senso, fra gli autori che gravitavano intorno all’Ecole libre, Leclerc 1894; Boutmy1895; Leroy-Beaulieu 1901; Bardoux 1906. Inoltre Gazeau 1903, e infine anche Halévy 1905).
L’elitarismo della pedagogia competitiva e contro-democratica di Boutmy ci riconduce, per converso, al nostro tema. Abbiamo visto come il “popolo” che fa da contrappeso a queste metodiche correttive fosse un popolo-nazione, un popolo “al singolare”, dove si sommano etnia, razza, nazione e popolo in un determinismo forgiato dai fattori naturali e storici. Una nozione fortemente anti-universalistica, che definisce un popolo depotenziato nella sua soggettività politica, schiacciato dal peso delle determinazioni storiche. E guardato con sospetto. La diffidenza, vista da Rosanvallon a fondamento delle posizioni contro-democratiche che hanno accompagnato fin dall’origine il percorso storico della sovranità popolare, interessa non solo la forma politica della democrazia, ma anche il soggetto che sta a fondamento della sovranità, il popolo, e la stessa realtà sociale del tempo, con i suoi percorsi di trasformazione. A dispetto dei frequenti richiami alla realtà positiva dei fatti in opposizione all’astrattezza dei principi, il “popolo” nell’Europa a cavallo fra Otto e Novecento non era affatto depotenziato, determinato dal clima, omogeneo: al contrario era attivo, organizzato nel movimento operaio e sindacale, diviso e articolato al proprio interno, esprimente non una ma diverse soggettività politiche. Il popolo finalmente “trovato” dalla contro-democrazia liberale non assomigliava a quello esistente.
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