Andrea Ragusa
Merita senza dubbio segnalare, anche in una rivista di storia, la comparsa nei cinema del film Il discorso del Re, diretto da Tom Hopper, racconto della evoluzione pubblica e privata di Re Giorgio VI d’Inghilterra da impacciato e timido erede al trono – minato da una balbuzie estenuante dietro la quale si nasconde l’ombra di un padre autoritario, ed i fantasmi di una infanzia di difficili rapporti con il fratello David (per breve tempo Edoardo VIII, prima della scandalosa abdicazione), sicuro della sua bellezza e della sua arroganza, e con una bambinaia vestita dei panni della gelida austerità vittoriana, e del dramma della scomparsa del fratellino Johnny – a Re coraggioso che si fa guida della nazione nel momento più difficile, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, l’Europa minacciata dalle ossessioni hitleriane.
Non solo – e non tanto, per quel che a noi più interessa – per la magistrale interpretazione di Colin Firth nei panni di Bertie-Re Giorgio VI, splendidamente spalleggiato da un Geoffrey Rush che dà al finto logopedista Lionel Loge i connotati dell’estro anticonformista di un personaggio degno della migliore letteratura vittoriana. Del resto, anzi, si potrebbe dire che proprio nella ricostruzione del rapporto di amicizia tra paziente e terapeuta, come, e forse soprattutto, nella ricerca delle radici della balbuzie, il film presenti le sua maggiori debolezze, rimanendo piuttosto in superficie.
Ma è sul piano della ricostruzione storica, invece, che Tom Hopper dà il meglio, anche grazie alla splendida fotografia di Danny Cohen, che restituisce nitidamente l’atmosfera delle nebbie londinesi, come il verde smeraldino della countryside. Il film non è soltanto un piccolo gioiello di filologia della storia del costume, che immerge lo spettatore nell’Inghilterra degli anni Trenta, ancora polverosa dell’austerità ottocentesca, orgogliosamente consapevole della grandezza del proprio Impero, e sofisticata in ogni atteggiamento, come denota il quadretto dell’incontro tra le altezze reali e la famiglia Loge intorno al tavolo da tè; ma già proiettata verso la modernità tecnologica: ove al landò si sostituisce ormai la macchina, la passione aviatoria si incarna nell’aeronautico e spericolato fratello David, e persino l’abbigliamento ricorda ormai assai più certe foto dell’immediato dopoguerra che non l’eleganza stravagante di Dorian Gray.
Il discorso del Re risulta anche un’ottima occasione per riflettere sulle trasformazioni che il rapporto tra potere e società vive nel Novecento: all’incrocio tra eclissi del mondo borghese e cambiamento del concetto di sacralità. Da un lato, infatti, vi è la pervasiva, onnipresente, indiscreta, penetrazione dei mezzi di comunicazione di massa – in particolare della radio – a rompere certe barriere di rispettosa lontananza tra sovrano e popolo, a fare del re un uomo che – come nel caso di Giorgio VI – finisce per essere spaventato da quello stesso popolo che incarna e rappresenta. Ed in questo senso, certo, la vicenda di Giorgio VI risulta emblematica del difficile processo di allargamento in senso democratico delle basi sociali dello stato liberale: non a caso, in uno dei colloqui più intimi tra i due, il finto dottor Loge nomina il popolo nelle sembianze dell’“uomo comune”, assai più che della nuova classe sociale. Fino al punto che il film è capace di porre l’interrogativo centrale delle radici populistiche della democrazia moderna: il filmato del congresso nazista che segue alla ripresa dell’incoronazione, e dell’arringa di Hitler commentata da Giorgio VI con parole semplici ma significative (“non so cosa dica, ma sembra che lo dica bene”), combacia perfettamente, in questo senso, con il discorso del re, che entra dai microfoni in ogni casa del Regno e dell’Impero, tra le truppe già al fronte, negli stabilimenti operai, in ogni nascosto salotto d’Inghilterra. E Giorgio VI esce infatti dalla sua lotta contro la balbuzie come un autentico leader moderno, capace di costruire il proprio rapporto con i sudditi con quel contraddittorio insieme di elementi che accostano all’autorità regale una sorta di vicinanza dimessa e, fintamente, persino plebea. D’altro lato, la dura requisitoria del padre, Giorgio V, contro la deriva indotta dai mezzi di comunicazione di massa, esemplifica al meglio la trasformazione cui il concetto di sovranità è sottoposto in epoca moderna. “Siamo merce”, dice in fondo l’anziano sovrano, trasformati in attori all’occorrenza. E questa sorta di “modernizzazione forzata” che la regalità subisce diventa l’autentico motivo critico del film: sospeso tra l’attenzione alle immense possibilità che i mass-media offrono; ed i pericoli altrettanto grandi che essi racchiudono in sé, disvelandoli immediatamente sia nelle opportunità manipolatorie fornite ad un demiurgo malato quanto geniale come Adolf Hitler, sia nelle difficoltà che trasformano la vita privata di un individuo che sognava di nascondersi fino a far perdere traccia della propria voce, e che invece la storia costrinse a fare della propria voce uno degli strumenti simbolici della resistenza inglese ed europea.
Biografia