Recensione a 12 dicembre 1969, di Mirco Dondi (Roma-Bari, Laterza, 2018, pp. 252)

di Domenico Guzzo

L’editore Laterza ha lanciato nel 2018 una nuova serie – 10 giorni che hanno fatto l’Italia – che presenta una più che interessante peculiarità, relativa alla costruzione di un sano discorso pubblico attorno all’identità e all’immagine della nazione.

Si tratta di agili volumi, composti in brevissimi capitoli tematici con apparati essenziali di note a chiusura, indici dei nomi e corredati spesso da glossari in appendice, che tentano una valida sintesi tra la divulgazione popolare e l’affidabilità delle scienze storiche. Un esercizio di delimitazione epistemologica e di chiarificazione concettuale rispetto alla ricostruzione dei tornanti fondamentali delle vicende italiane, di per sé oltremodo necessario in un Paese che continua ad alimentare abusi pubblici del passato, memorie antagoniste ed istanze di delegittimazione in nemico interno dell’avversario politico, risalenti finanche alle fondamenta risorgimentali.

Fra le prime uscite della serie c’è – e non poteva non esserci, dato il contemporaneo scoccare del cinquantesimo anniversario dal prodursi di un evento così traumatico e decisivo – il libro sul 12 dicembre 1969, giorno della strage di Piazza Fontana a Milano, affidato allo storico, e fresco romanziere, Mirco Dondi (Università di Bologna). Una scelta che appare corretta e ben ponderata, dato che l’autore può coniugare una certa dimestichezza – in qualità di direttore del consolidato Master in Comunicazione Storica – verso i canoni contemporanei dell’interazione mediale di massa, assieme ad un bagaglio di larghe conoscenze scientifiche sul fenomeno terroristico maturate nella preparazione del corposo saggio L’eco del boato. Storia della strategia della tensione (1965-1974), sempre edito da Laterza, dentro la più accademica collana Storia e Società, nel 2015. Prova ne è il risultato redazionale espresso da una scrittura fluida e facilmente fruibile, eppur custode di contenuti significativi e di corretta consequenzialità.

La narrazione storiografica inizia cercando di stabilire, con il massimo dell’essenzialità, il perimetro e la portata delle vicenda: è la cifra della necessità di delineare un percorso di luci segnaletiche nelle nebbie dei depistaggi e delle irresolutezze giudiziarie che da sempre avvolgono la «madre di tutte le stragi». In questo senso, un prologo s’incarica efficacemente di mettere in rilievo le linee di fibrillazione economica (confluenti sulle vertenze dell’Autunno Caldo), istituzionale (a partire dall’imminente attuazione delle Regioni), socio-culturale (riverbero pluriforme della contestazione sessantottina) che contestualizzano l’attentato; mentre forse restano in eccessiva penombra gli altrettanto discriminanti ingaggi geostrategici (legati alla collocazione italiana lungo la cortina di ferro), politici (involuzioni della formula di centro-sinistra) e valoriali (la pasoliniana rivoluzione antropologica dettata da televisione e consumismo). Una asimmetria descrittiva, dovuta presumibilmente a ragioni di compattezza, che viene comunque parzialmente compensata nel dipanarsi dei capitoli successivi.

In effetti, arrivando alle ultime due pagine del prologo, si comprende come Dondi voglia ottimizzare lo spazio a propria disposizione, preferendo sacrificare alcuni dettagli di “contesto” – già molto battuti in letteratura – in favore di una maggiormente innovativa descrizione del “testo” stragista: il profilo degli attentatori e degli eversori coinvolti, raccolto in appena un’ottantina di righe, risulta infatti mirabilmente pregnante e completo, sapendo restituire quel coacervo di settarismo ideologico, nichilismo sociale e depravazione comportamentale che solo può presiedere – in congiunture di estrema radicalizzazione geopolitica – a scelte tanto atroci ed aberranti. Ed è su questa capacità di ridare tridimensionalità umana – se non addirittura quadridimensionalità, tenendo in conto l’esercizio di storicizzazione dei pensieri e delle emozioni che muovevano le azioni in questione – ai protagonisti della vicenda terroristica, che s’impone il valore della ricostruzione divulgativa di Dondi: inanellando con chiarezza essenziale le impressioni in tempo reale, le prime indagini, i sommovimenti politici, il riposizionamento dei corpi extraparlamentari, le manovre delle divisioni riservate degli apparati di sicurezza, lo straordinario civismo democratico della reazione popolare, sono i volti del macabro “teatro di Piazza Fontana” a stagliarsi in primo piano.

Le figure abiette del Male, incarnate dagli ordinovisti veneti, che con freddezza allucinante equiparano al bombardamento aereo di guerra la strage premeditata contro inermi, razionalizzando quel sangue innocente come «concime» di una nuova Italia e di una nuova Europa ricondotte nell’alveo dell’organicismo totalitario.

Le sagome “statali” corrive all’orrore, nere quasi quanto quelle dei macellai neonazisti, che per presunta Ragion di Stato – pervertita dalle sindromi maccartiste – impaludano apparati di sicurezza (teoricamente destinati alla difesa costituzionale) in un atroce risiko di omissis, depistaggi, inflitrazioni ed esfiltrazioni, rendendo sostanzialmente nulla ogni istanza di deontologia sicuritaria e di verità giudiziaria.

Le maschere grigie dei notabili di governo, tanto ambigue e bizantine da giungere a confondere sia i terroristi neri – maldestramente convintisi di poter ottenere dal Presidente del Consiglio Mariano Rumor la dichiarazione dello “stato d’emergenza”, propedeutico all’intervento golpista, all’indomani della strage – che la stragrande maggioranza democratica del Paese, tenuta orfana di una guida politica al di sopra di ogni sospetto.

I visi, stravolti da un dolore gratuito e soverchiante, delle vittime “postume” alla deflagrazione: come il coltivatore Vittorio Mocchi, il diciassettesimo caduto, morto dopo quattordici anni di sofferenze per le tante implicazioni delle ferite, fisiche e psicologiche; o il ferroviere Giuseppe Pinelli – forse, almeno simbolicamente, la diciottesima vittima dell’attentato – precipitato per controverse ragioni dal quarto piano della Questura di Milano, durante un’interrogatorio fuori regola e legato ad una falsa pista anarchica.

I profili multipli di giudici, avvocati, imputati erronei e testimoni che hanno costellato la vana giostra di diciassette iter processuali e dieci sentenze – travolgendo peraltro con lo stigma del “mostro” l’innocente Pietro Valpreda – finite nell’impossibilità di concretizzare condanne e pene, pur in presenza di corpose prove.

Il dantesco viaggio fra i gironi e i dannati della strage di Piazza Fontana è molto ben condotto da Dondi, anche se un paio di capitoli si rivelano irrisolti ed inadeguati all’alto livello generale della ricostruzione.

Quello sui servizi d’informazione necessiterebbe di uno sviluppo meno compresso, adagiato su un maggior numero di pagine (e soprattutto di un’infografica più ampia e lineare), poiché la quantità dei soggetti e delle strutture coinvolte – intrecciate in un contorto dedalo di interazioni incrociate dall’imprecisato confine giuridico – è di difficilissima cognizione per i non addetti ai lavori e senza un adeguato respiro questi specifici argomenti rischiano di venir meno all’intento divulgativo del libro. Così come larghi spazi di esplorazione e di esplicazione restano nella descrizione delle risultanze dell’ultima sentenza sulla strage di Brescia (28 maggio 1974, 8 morti), che ha permesso di confermare molti quadri indiziari e responsabilità relativi all’attentato del 12 dicembre 1969, per via del ritrovamento di un filo di continuità tra i due eccidi, in termini di matrici ideologiche, ambiti operativi e mezzi logistici impiegati.

Va detto che l’autore ha avuto pochissimo tempo per analizzare ed interpretare le motivazioni della Cassazione di Brescia, diffuse solo il 12 settembre 2017: una seconda edizione aggiornata permetterà certamente di colmare le piccole debolezze e di rinforzare le poche criticità di un volume che sembra assolvere pienamente alla missione di dare un’immagine chiara, storicamente verificata e popolarmente accessibile, ad una vicenda che «resta un trauma non superato, non soltanto dai familiari, ma anche dalle istituzioni, che hanno faticato ad accettare la definizione di un quadro di realtà che le coinvolge».