Recensione ad A. Ventura, Risorgimento veneziano. Daniele Manin e la rivoluzione del 1848, introduzione di Adriano Viarengo, Roma, Donzelli, 2017, pp. 205.

Di Christian Satto

Il volume si configura come una raccolta degli scritti che Angelo Ventura ha dedicato, in diversi momenti della sua vita di studioso, al Quarantotto veneziano e i suoi peculiari problemi. Il problema costituzionale veneziano nel 1848-49 era il titolo della sua tesi di laurea, relatore Roberto Cessi, discussa nel 1954 e pubblicata l’anno successivo nel volume Lineamenti costituzionali del governo provvisorio di Venezia nel 1848-49 presso la casa editrice padovana Cedam. Proprio la ripubblicazione integrale di questo saggio costituisce la prima e più consistente parte del volume che appunto si intitola nello stesso modo; nella seconda, Daniele Manin e la rivoluzione del 1848, seguono, invece, alcuni saggi successivi, comparsi in sedi diverse, tutti accomunati, come ci dice il titolo stesso della sezione, dal ruolo avuto da Manin in quella stagione rivoluzionaria.

Uno dei nodi più interessanti riguarda sicuramente le ambiguità delle fonti su cui si legittimò la proclamazione della repubblica del 22-23 marzo 1848. Come scriveva Ventura, «se da una parte si riconosce, con la validità della proclamazione della Repubblica, l’origine popolare del nuovo regime, dall’altra il richiamo esplicito alla capitolazione, dalla quale si persiste far derivare legalmente il nuovo governo provvisorio, ribadisce un diverso e antitetico fondamento di diritto» (p. 14). Queste «due diverse fonti del diritto» segnalavano la presenza di due forze politiche, i democratici da una parte e i conservatori dall’altra, in equilibrio fra loro, che avevano trovato sulla repubblica un accordo in chiave soprattutto antiaustriaca. Infatti, il nuovo governo si dette il nome di Governo provvisorio della repubblica veneta. Ma le difficoltà e le incomprensioni fra i due gruppi non sarebbero mancate. Qui, però, interessa andare rapidamente ad un altro nodo importante di lungo Quarantotto veneziano.

A Ventura, infatti, premeva confutare in primo luogo, come ben mette evidenza Adriano Viarengo nella sua densa introduzione, la tesi di un Manin municipale, affermatasi fin dalle vicende quarantottesche. I sostenitori dell’opzione sabauda avevano tacciato di municipalismo gli oppositori, per delegittimare le opzioni alternative da essi incarnate, soprattutto se repubblicane e magari legate ad un passato di autonomia statuale. Secondo Manin, invece, la repubblica nata a Venezia nel 1848 non doveva richiamare in vita la defunta esperienza della Serenissima, ma dar vita a un esperimento nuovo, capace di misurarsi con la sovranità popolare. Insomma si trattava di controbattere quello che era diventato un luogo comune storiografico, confermato, sottolinea puntualmente Viarengo nell’Introduzione, anche in tempi allora recenti da Adolfo Omodeo e da Walter Maturi ma non solo. Federico Curato, recensendo nel 1957 proprio il volume di Ventura sulle pagine de «Il Risorgimento», aveva osservato come Manin «nel 1848 aveva ancora uno spirito fortemente municipale». A questi si sarebbe aggiunto Giorgio Candeloro per il quale «il suo repubblicanesimo [di Manin] aveva le radici soprattutto nella tradizione veneziana e nella particolare situazione in cui egli si era trovato ad agire a Venezia nel ’48 e nel ‘49» (p.157). È lo stesso Ventura a citarlo in apertura del saggio L’opera politica di Daniele Manin per la democrazia e l’Unità nazionale che costituisce l’ultimo capitolo di questa raccolta, osservando poco dopo come questi giudizi fossero figli delle polemiche successive al Quarantotto «diffusi dalla pubblicistica storica e politica dei contemporanei, e quindi assunti a chiave di lettura storiografica, che liquidano in un limbo d’incomprensione i caratteri specifici della rivoluzione veneziana e dell’opera politica di Manin» (p. 158).

Per rafforzare la sua tesi di un Manin aperto ad una visione nazionale dei problemi, dunque, per Ventura diventava fondamentale un’analisi più approfondita della personalità del patriota veneto. Di qui, come si può apprezzare dalle notizie fornite dai curatori, il bisogno di tornare su Manin diverse volte in un arco cronologico che sfiora il mezzo secolo, nella convinzione che la giusta contestualizzazione del principale protagonista di quelle vicende fosse necessaria per rafforzare la sua tesi sul carattere nazionale e non municipale del quarantotto veneziano. Precocità intellettuale, idee anticonformiste forgiate sul razionalismo illuminista che lo portò ad allontanarsi dalla religione cattolica, passione per i classici italiani (Dante, Petrarca, Boccaccio, Machiavelli, Guicciardini, Ariosto, Tasso, Tassoni, Parini, Alfieri), sono solo alcune delle caratteristiche della personalità intellettuale del Manin degli anni della formazione tratteggiate da Ventura. In quel periodo di studi, tuttavia, Manin non aveva messo a punto nessun credo politico «perché il suo spirito pratico, alieno dalle astrazioni, preferiva proporsi progressivamente quelle mete che di volta in volta gli sembravano possibili di non remota realizzazione, come dimostrò particolarmente nel 1848-49» (p. 136). Il ritratto, dunque, è quello di una personalità pratica, non immune dalle idee del romanticismo e profondamente convinta degli ideali nazionali.

Ventura, dunque, con i suoi approfondimenti, dimostrò come, proprio attraverso lo studio di un personaggio come Manin, si potesse disarticolare il tradizionale schema moderati contro democratici che andava, per «impronta ideologica e politica», a semplificare, spesso fuorviandola o comunque compromettendola, una situazione molto più complessa e articolata. Lo storico riconduceva questo tipo di interpretazioni semplicistiche a «un criterio di giudizio prevalentemente politico-ideologico, che si traduce in un errore di anacronismo consistente nel considerare la storia del Risorgimento non nel contesto reale delle idee e delle mentalità, dei problemi politici e sociali e dei rapporti internazionali dell’Ottocento, ma da una prospettiva che trasferisce in quel passato le problematiche e le esigenze del Novecento, secondo una tendenza indotta anche dallo spostarsi degli interessi storiografici, dopo il ritorno della democrazia in Italia, verso le origini e la storia del movimento operaio e socialista e di quello cattolico, sorti in opposizione alla classe dirigente risorgimentale e allo Stato liberale» (p. 162). Una lunga citazione utile ad esemplificare come nei lavori di Ventura riproposti nel presente volume non manchi mai il confronto storiografico nella consapevolezza che per proporre nuovi percorsi e nuove letture occorressero sia l’approfondita conoscenza della tradizione precedente, sia quella disciplina del mestiere attenta a non trasferire in epoche diverse problemi che non appartenevano loro. Come opportunamente puntualizza Viarengo nell’introduzione, nelle sue pagine Ventura cerca sempre di tenere a bada i condizionamenti che possono alterare il giudizio dello storico portandolo a commettere l’errore di incappare nell’«anacronismo, il figlio prediletto del finalismo» (p. XI). I saggi riuniti in questo volume nel loro insieme, infatti, costituiscono prima di tutto una lezione di metodo, a conferma di quanto essenziale sia per la solidità di un lavoro storiografico la ricerca erudita e documentaria. Il pieno possesso delle fonti, infatti, permetteva a Ventura di tenere insieme fili diversi dal cui intreccio usciva un tessuto narrativo di grande puntualità, si pensi, ad esempio, ai dettagli relativi alla formazione di Manin, ma allo stesso tempo di ampio respiro, quale la capacità di delineare un esempio di Repubblica, quella veneta, che insieme alla sorella Romana fu uno degli unici casi in cui gli ideali repubblicani trovarono un’attuazione pratica durante il Risorgimento.