di Patrizia Fazzi
Il recente volume, Il confine mediterraneo. L’Europa di fronte agli sbarchi dei migranti, curato da Valerio De Cesaris ed Emidio Diodato, affronta da prospettive diverse l’annosa questione delle migrazioni nel Mediterraneo, considerato a ragione il confine più caldo d’Europa. La gestione dei flussi, il tema della sicurezza, la “retorica dell’invasione” unita alla mancanza di politiche condivise, dividono sempre più gli Stati membri dell’Unione europea, che proprio sulla gestione degli sbarchi nei paesi frontalieri gioca una partita decisiva sul proprio futuro.
Il volume si articola in dieci interventi che contribuiscono a fare chiarezza su un argomento così divisivo, adottando molteplici prospettive: dal ruolo delle istituzioni comunitarie e dei principali paesi di approdo (Italia, Spagna, Grecia, Malta) alle posizioni sostenute dal gruppo di Visegrád, dalle politiche migratorie adottate dall’Unione africana e dalla Turchia alla funzione del modello dei corridoi umanitari.
Il volume inizia con l’articolo di Valerio De Cesaris, che affronta da una prospettiva storica l’immigrazione via mare in Italia, a partire dagli episodi isolati dei migranti albanesi negli anni novanta fino a giungere al caso dei profughi eritrei salvati dalla nave Diciotti della Guardia costiera italiana. Seguono poi le riflessioni a più voci che diventano la guida per una ricostruzione non solo storica, ma anche politologica e giuridica di un fenomeno strutturale della storia dell’umanità, amplificato negli ultimi anni dai processi di modernizzazione e globalizzazione. I singoli contributi sono, in definitiva, le premesse per intraprendere «un viaggio attraverso il confine mediterraneo, guidato dagli strumenti della ricerca scientifica, come se fossero una sorta di “rosa dei venti”, un itinerario tematico nel Sud dell’Unione europea con incursioni in Europa centrale, Turchia e Africa»1.
La percezione del fenomeno, certamente consistente ma non tale da mettere in crisi un’area così ricca come l’Unione europea, è spesso molto lontana dalla realtà, ma l’incapacità di trovare unità di intenti e linee di interventi comuni sono, secondo i curatori, la prova evidente delle contraddizioni che accompagnano la politica europea in tema di immigrazione: regole obsolete, fallimento dei programmi di ricollocamento, egoismi nazionali e reciproche accuse creano quel cortocircuito che sta vivendo l’Unione europea alla vigilia del rinnovamento del suo Parlamento. Così lo “sbarco”, che per sua natura evoca l’invasione e invoca le fortificazioni dei confini, diviene il simbolo di quell’assedio che i popoli del vecchio continente starebbero vivendo, anche a seguito di un approccio emergenziale verso il fenomeno migratorio, un vero e proprio vizio originario tanto della politica, incapace di strutturare un modello efficace di integrazione, quanto del dibattito pubblico.
I dati recenti, ricavati da fonti autorevoli quali l’Unhcr e il ministero dell’Interno, utilizzati dagli autori per comparare i flussi via mare a partire dalla fine degli anni novanta, smentiscono quella invasione presente nell’immaginario collettivo, che continua ad animare il dibattito pubblico e politico. Ne consegue una ridefinizione della geografia dei flussi e una profonda riflessione sul limes mediterraneo: com’è stato pensato, presidiato, quanto è diventato mobile, fino a quanto può essere spinto verso le coste africane, ma soprattutto si invita a considerarlo come un reale confine europeo.
Nel corso del 2018 il baricentro dei movimenti nel bacino del Mediterraneo si è spostato da oriente a occidente, delineando alcune significative variazioni nella storia dei flussi. La Spagna ha registrato un incremento di arrivi, a seguito anche delle politiche restrittive adottate dall’Italia, mentre la chiusura della rotta balcanica dopo l’accordo tra l’Unione europea e la Turchia (2016), caratterizzata prevalentemente dal passaggio di profughi siriani dalle coste turche alle isole greche, aveva alimentato quella del Mediterraneo centrale, a sua volta contrastata a seguito degli accordi tra il governo italiano e quello libico (2017). Come mostra la storia recente, diventa dunque difficile sostenere che si possano governare le migrazioni internazionali facendo leva solo sulle politiche di contrasto: alla chiusura di una rotta migratoria è giocoforza che segua, come efficacemente documentato, l’incremento dei flussi lungo altri confini. E la destrutturazione del limes europeo, che non è più un concetto esclusivamente geografico, ma una realtà in costante ridefinizione, è paradossalmente una testimonianza di come i flussi abbiano la meglio sui confini.
Nel volume spiccano significative letture del fenomeno migratorio, che si pongono su versanti diversi ma complementari, grazie alle quali è stato analizzato il Mediterraneo come spazio che unisce l’Europa all’Africa. Si pone così l’accento sugli interventi sia nei paesi di origine sia su quelli di transito dei migranti, che si sono tradotti nell’adozione di misure che possono essere ricondotte a molteplici tipologie. Tra queste spiccano le politiche di sviluppo per intervenire sulle cause che spingono i migranti a lasciare il paese di origine, una relazione, quella tra migrazioni e sviluppo, presentata nel volume in modo tutt’altro che lineare. Seguono i tentativi di esternalizzare il controllo dei confini, miranti a destrutturare, monitorare o deviare le rotte dei migranti grazie alla cooperazione con i paesi attraverso cui essi transitano. Ma la questione su dove inizi la migrazione verso l’Unione europea e dove quest’ultima abbia facoltà di intervenire nella traiettoria dei migranti chiamano in causa principi cardine del diritto pubblico, quali la sovranità e la giurisdizione, oltre all’idea stessa di frontiera, che sta conoscendo, come ampiamente documentato nel volume, un vero e proprio processo di stratificazione, articolandosi su livelli eterogenei. Prevale in questo caso la tesi secondo cui la politica di premiare con maggiori aiuti allo sviluppo quegli Stati africani che accettano di contrastare i flussi sia troppo eurocentrica per potere essere accettata dall’Unione africana oppure, laddove realizzata, palesemente lesiva dei diritti umani2.
Emergono poi le posizioni prese in seno all’Unione africana stessa, peraltro ignorate o poco dibattute nel vecchio continente. La focalizzazione si sposta, seguendo questa prospettiva, sulle direttrici degli spostamenti e sulle molteplici questioni migratorie che si intrecciano tra loro, da cui si evince che l’Unione africana non è affatto appiattita sulle posizioni sostenute dall’Unione europea o sugli snodi considerati da quest’ultima prioritari. I paesi africani non vogliono sottrarsi a un confronto per trovare forme di reciproca collaborazione, ma l’obiettivo prevalente è quello di instaurare tra le forze coinvolte un partenariato tra pari, nell’intento di coniugare le aspirazioni dei due raggruppamenti continentali, che sono ancora oggi molto distanti3.
Conclude il volume l’articolo di Marco Impagliazzo, che considera i corridoi umanitari una buona pratica per conciliare accoglienza e sicurezza e dunque per governare in modo efficace le migrazioni internazionali4. Sperimentato per la prima volta nel 2017, questo modello sembra corrispondere alla soluzione politica del fenomeno, nonostante i numeri modesti che lo contraddistinguono: un vero e proprio passo in avanti per un’Europa che riconosce i propri fondamenti giuridici, che non si chiude a fortezza, ma che affronta l’arrivo dei profughi guardando alla sicurezza di chi fugge dai conflitti e di chi li accoglie, in una prospettiva di reale integrazione.
1 V. De Cesaris, E. Diodato (a cura di), Il confine mediterraneo. L’Europa di fronte agli sbarchi dei migranti, Carocci, Roma 2018, p. 11.
2 G. Musso, Dove finisce l’Europa? Il confine euro-africano tra esternalizzazione e politiche di sviluppo, in op. cit., pp. 121-135.
3 F. Guazzini, “Nessuna regione al mondo può essere fortezza”. L’Unione Africana e le sfide della mobilità, in op. cit., pp. 137-158.
4 M. Impagliazzo, I corridoi umanitari. Una via sicura per l’Europa, op. cit., pp. 175-184.