Renata De Lorenzo, Borbonia felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, Salerno editrice, Roma, 2013, pp. 232.

di Giuseppe Ferraro

Copertina_recensione_FerraroNon sono stati certamente pochi gli studi e le ricerche che in occasione dei 150 anni dell’unificazione italiana hanno voluto dare il loro contributo al dibattito storiografico su questo processo politico. Spesso hanno privilegiato letture che quasi chirurgicamente hanno diviso i protagonisti di quegli eventi in buoni e cattivi, vincitori e vinti o bollato l’unificazione come un grande pasticcio commesso a spese di alcuni regni pre-unitari. Un campo che non è stato coltivato generalmente da parte della storiografia ufficiale, ma da studiosi che con tanto di documentazione alla mano hanno saputo a vario modo affermare la loro verità soprattutto tra il grande pubblico. Televisioni, case editrici, siti internet hanno avuto, come mai prima del 2011, l’occasione di raccontare un’altra verità, una controstoria, non sempre analizzando la serietà e l’onestà della proposta, ma «ignorando spesso la complessità, il contesto, la longue durée temporale e l’orizzonte spaziale» delle fasi del processo unitario italiano (p. 9).

Su un altro orizzonte si colloca il lavoro di Renata De Lorenzo, Borbonia felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo. Un libro-antidoto che permette di accostarsi a quegli eventi in maniera equilibrata, esaminando le debolezze e le criticità del processo unitario, a guida sardo-piemontese, senza dimenticare però le congiunture che nel biennio 1859-1861 portarono la piccola galassia degli stati regionali che componevano la penisola, come il Regno delle Due Sicilie, a collassare. Un lavoro che si rivolge al mondo accademico, a cui la De Lorenzo appartiene, ma che grazie ad uno stile letterario chiaro permette al grande pubblico di conoscere le fasi dell’unificazione italiana in maniera seria. La periodizzazione scelta dall’autrice per raccontare questo pezzo di storia del Regno delle Due Sicilie partendo dal 1815 permette di esaminare meglio la situazione politica ed economica in cui maturarono i semi del crollo, senza tralasciare le aree di dinamismo che i Borboni erano riusciti a costruire nel Mezzogiorno. Tra il 1815 e il 1861 infatti si delinearono i fattori di ritardo e di chiusura che portarono al collasso il più popoloso e antico degli stati italiani pre-unitari, nonostante fosse stato tra quelli “restaurati” il più attento a riutilizzare uomini e riforme del periodo francese per il  suo buon funzionamento, come dimostrava la politica dell’“amalgama”. In Piemonte  alla Restaurazione era seguita invece una politica di rigore legittimista da parte di Vittorio Emanuele I. «[M]a gli anni successivi avrebbero mostrato un processo inverso: da un lato le riforme carloalbertine e il Decennio cavouriano, ispirati alla modernizzazione dello Stato e al confronto con il contesto internazionale all’insegna di una vita parlamentare garantita dallo Statuto, dall’altro la chiusura e la frattura [dei Borboni] con i propri gruppi dirigenti più giovani e qualificati» (p. 32). Anche la natura sembrava accanirsi per condurre ancora più in bilico la vita del Regno delle Due Sicilie con frequenti terremoti, alluvioni e il dissesto idrogeologico che sembrava preannunciare il definitivo crollo dei Borboni. A questa si aggiungeva la storica rivalità tra Palermo e Napoli che rendeva il Regno una «nazione divisa».                                                                                                 Gli stessi primati, secondo alcuni messi in crisi dall’unificazione o “scippati” al Sud dal Nord, che facevano del Regno delle Due Sicilie uno stato guida nella penisola, vengono dall’autrice contestualizzati e analizzati nei risultati prodotti sul lungo periodo. I Borboni ad esempio erano stati i primi a dotarsi di una ferrovia, la Napoli-Portici, aperta il 3 ottobre 1839, mentre il Piemonte aprì il primo tratto Torino-Moncalieri solo nel 1848. Ma questo primato non è possibile considerarlo tale perché non diventò per il Mezzogiorno un volano per «instaurare una normalità continua e produttiva, aliena da eccessi in alto e in basso» (p. 17). Infatti al momento della «proclamazione del regno d’Italia, le linee meridionali erano rimaste limitate mentre la pianura padana, soprattutto il Piemonte, offriva un reticolo diversamente distribuito di comunicazioni: dei poco più di 1800 km. della rete ferroviaria nella penisola, al Nord erano in esercizio 1372 Km. […]» (p. 17).

L’unificazione italiana non cancellò le inadempienze e le fratture preunitarie che, anzi, si presentarono in maniera virulenta dopo il 1860, come dimostrava il brigantaggio represso con violenza da parte dello Stato italiano anche con metodi extra legali. Ai primi entusiasmi seguiti al passaggio di Garibaldi era seguita la delusione e non gli interventi di lungo periodo che la popolazione si aspettava. Tali interventi, già poco praticati dai Borboni,  sarebbero stati necessari a risollevare il contesto socio-economico e automaticamente a migliorare l’ordine pubblico.  Nelle ex province napoletane andarono strutturandosi ancora una volta equilibri di potere pronti a mantenere le loro posizioni e privilegi, come dimostrava la mancata quotizzazione delle terre. L’unificazione italiana aveva avuto passaggi traumatici, come tutti i processi di tale portata politica (basta citare in età moderna il caso inglese e spagnolo che ancora oggi evidenziano la persistenza di simili fratture), ma nel lungo periodo avrebbe prodotto una serie di vantaggi.

Come osserva Salvatore Lupo nel suo bel libro L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile (Donzelli, 2011) l’unificazione «comportò l’adozione di un sistema rappresentativo, consentì sul medio periodo alle élites della varie periferie, al Nord, al Centro e al Sud del paese, di concorrere alla formazione della volontà politica come non era avvenuto in nessuno degli stati pre-unitari […]. A un quindicennio del’unificazione, i meridionali esercitarono un peso determinante nel passaggio del governo dalla Destra alla Sinistra» (Lupo, 2011, p. 7). Ma tutto questo si concretizzò attraverso «brusche accelerazioni, guerre, imprevedibili vittorie e repentini collassi, azioni e reazioni anche incoerenti» (Lupo, 2011, pp. 7-8). Inoltre, come sostiene Giuseppe Galasso, la penisola italiana prima del 1861 è praticamene nulla «nell’oceano del’economia mondiale» e dopo 150 anni siede tra i «dieci paesi più avanti al mondo» (G. Galasso, Centocinquant’anni, «L’Acropoli», 4 luglio 2010, p. 348). Ma non tutto ciò che è venuto da quel processo unitario può considerarsi un successo, come dimostrano molti  dei problemi che ancora oggi permangono.