Dario Petrosino
Da qualche mese compare nelle librerie un nuovo libro sul razzismo tre le due guerre. Niente di nuovo, verrebbe da dire. Di razzismo, negli ultimi tempi, se ne parla abbastanza. Mai abbastanza e talvolta a sproposito, verrebbe da rispondere. Infatti la vera novità di questo libro, che ripropone gran parte dei saggi pubblicati dall’Autore, non è il carattere inedito di tali scritti, tutti usciti all’incirca tra il 1994 e il 2005, ma il taglio che essi danno al tema affrontato. Un percorso che Bonavita stava compiendo in forma del tutto innovativa e che ha deciso di interrompere togliendosi la vita nel 2005, a 36 anni.
L’intenzione dei curatori è quella di ricollegare un filo, spezzato sia dalla scelta estrema dell’Autore, che dal destino in cui è incorso il campo degli studi sul razzismo in Italia. Gli studi di Bonavita e il suo appassionato lavoro di ricerca erano confluiti, nel corso degli anni Novanta, nel “Seminario permanente per la storia del razzismo italiano”, poi trasformatosi, senza nessuna fortuna, in “Centro studi sul razzismo italiano”. A quella esperienza, che non ha avuto il seguito che si sperava, hanno partecipato vari studiosi, tra i quali Riccardo spiccava per il suo impegno e per l’acutezza dell’analisi. Il Seminario, nato su iniziativa di Alberto Burgio e Luciano Casali, si proponeva di aprire l’Italia a una nuova via nel campo degli studi sul tema.
In quegli anni infatti si tentò di affrontare in un contesto multidisciplinare il discorso del razzismo italiano, costruito non solo contro gli ebrei, ma anche contro neri, donne, omosessuali, zingari, testimoni di Geova, poveri, stranieri, oppositori politici, in una definizione di razzismo che si ampliava fino a inserire, innovativamente, il sessismo e che vedeva il suo sviluppo attraverso un percorso che partiva dallo stereotipo per giungere alla naturalizzazione di quest’ultimo (lo stereotipo che diventa caratteristica innata) e, alla fine, al razzismo vero e proprio.
Non più “italiani brava gente”, dunque, ma un discorso più articolato, e l’intenzione di dimostrare, documenti alla mano, che anche gli italiani erano razzisti e in tempi ben antecedenti alle leggi razziali.
Il progetto si poneva in linea con quanto studiato da tempo all’estero; ma, da questa parte delle Alpi, lo stesso approccio non ha avuto seguito. Non è il caso di esaminare qui le ragioni di questo fallimento. È più importante, semmai, la forza di quell’assunto teorico che ancora oggi riesce a ricavarsi uno spazio, seppure di nicchia, nell’ambito accademico italiano.
Uno spazio tuttavia ristretto, e non sempre compreso. Anche la quarta di copertina del libro sembra far torto al lavoro di Bonavita: nel descrivere brevemente il contenuto della raccolta, omette infatti di evidenziarne la sua potenziale estendibilità in senso diacronico e geografico.
Bonavita, infatti, analizza lo sviluppo del razzismo includendovi a margine, cosa abbastanza rara negli studi italiani, il discorso della sessualità come categoria razzizzata insieme al discorso degli stereotipi. Ma il suo discorso non si ferma qui. Importante anche il discorso sulla periodizzazione, che egli fa risalire fino al medioevo, in una riflessione che sembra non contemplare gli scritti di Foucault, che Bonavita non cita mai pur facendo proprie alcune delle ipotesi dello storico francese. Importante anche la dimensione europea che Bonavita intende dare al fenomeno del razzismo, fatto non di casi nazionali indipendenti fra loro, ma di un unicum tutto interno alla cultura occidentale, che poi le singole realtà nazionali hanno interpretato in forme più o meno estreme.
Un percorso ancora da completare e perfezionare, interrotto bruscamente, come dicevamo, dalla morte dell’Autore, che però aveva colto in pieno il ruolo fondativo del testo scritto nella elaborazione degli stereotipi negativi e, attraverso questi, dell’ideologia razzista. Infatti va rilevato che la letteratura, sia narrativa che periodica, non giunge a rafforzare in forma casuale lo stereotipo razzista, ma è organica a questa costruzione sociale. Vale a dire che i regimi (non solo quello italiano e non solo i regimi) si avvalgono della carta stampata e dei libri nelle edicole per formare un’opinione pubblica, la cui trasparenza nei criteri è tutta da raccomandare.
La pubblicazione dei principali scritti di Riccardo Bonavita giunge quindi, se si consente l’espressione, come un piccolo raggio di sole nel panorama, decisamente ristretto, degli studi sul razzismo italiano. I nuovi risvolti che questi saggi propongono meriterebbero uno spazio più ampio di quello adatto a una breve recensione, e non nascondiamo il desiderio di dare una prosecuzione a queste riflessioni nei prossimi numeri della Rivista. L’augurio, rivolto sia ai curatori del libro, che a quanti hanno condiviso con Riccardo le proprie esperienze di ricerca, è che il percorso da lui lasciato non sia interrotto. Che i semi di quella fertile esperienza non vadano perduti.