Andrea Ragusa
Che si tenti uno spostamento della visuale classica che confina lo sport negli argomenti “eterodossi” e marginali della storiografia, è fenomeno divenuto ricorrente negli ultimi quindici-venti anni anche in Italia, sulla scorta di esempi già più consolidati, come quello francese, nei quali lo sport è da tempo divenuto tema di ricerca analitica e di complessa elaborazione. Ciò vale soprattutto, s’intende, per quegli sport – il ciclismo, e soprattutto il calcio – che meglio hanno rappresentato, come fenomeni di massa, aspetti decisivi dei fenomeni di trasformazione della società contemporanea.
Più difficile è valutare la percorribilità di analoghi esperimenti con riguardo a sport rimasti a lungo, e tuttora legati, a dimensioni più elitarie, più perimetrate, più circoscritte. È il caso della pallacanestro, sport arrivato in Italia dagli Stati Uniti nei primi anni del Novecento, quasi come esperimento all’interno delle società ginniche, e progressivamente affermatosi come elemento oggi importante dello spettro culturale-ricreativo del nostro paese, pur se in dimensioni quantitative comunque di gran lunga inferiori a quelle del calcio e dello stesso ciclismo. Diciamo subito che gli autori della interessante Storia sociale della pallacanestro in Italia (Lacaita, Manduria-Bari-Roma, 2009, pp. 259), Saverio Battente, già noto al pubblico degli studiosi per una apprezzatissima biografia politica ed intellettuale di Alfredo Rocco, e lo studioso bolognese Tito Menzani, hanno assolto pienamente al loro compito cogliendo e raccontando in forma disinvolta ed appassionante, senza mai cedere tuttavia al gusto bozzettistico che spesso finisce per prevalere in chi scrive di storia dell’evento sportivo, i passaggi fondamentali, i nodi ed i problemi che stanno dietro l’evolversi di uno sport che proprio a Siena e Bologna ha del resto due sedi di diffusione storicamente consolidate e ben conosciute. E del resto i due autori non mancano sin dalle premesse di ribadire una motivazione anche personale che li spinge ad indagare origini e sviluppi di uno sport di cui loro stessi si dicono praticanti e spettatori competenti non meno che appassionati.
Lo fanno scegliendo la visuale complessa, e completa, dello sport come fenomeno sociale, dalle dense implicazioni culturali, e che si situa nella cornice della vita politico-istituzionale di un paese con significato e dignità almeno pari – se non, per alcuni aspetti, addirittura superiore – rispetto ad altri. “Si trattava – si afferma condivisibilmente sin dalle prime pagine – di far uscire la narrazione della pallacanestro dal limbo della pratica agonistica per inserirla nell’alveo delle trasformazioni avviatesi anche in Italia nel corso del Novecento di fronte alla modernità, associando al momento narrativo un consapevole tratto interpretativo, tanto in ambito politico-istituzionale, socio-culturale, che economico” (p. 6).
Così la pallacanestro – o l’iniziale “palla al cesto” – viene innanzitutto separata e definita rispetto agli altri sport, sottolineandone la natura elitaria persino da un punto di vista di genere: la pallacanestro fu per tutta l’età liberale un fenomeno praticato soprattutto da donne, all’interno delle società ginniche (la “Mens Sana in Corpore Sano” fu una delle prime a portare nel 1907, per merito dell’insegnante di educazione fisica da Nomi Pesciolini, la “palla al cesto” in Italia); diffondendosi soprattutto negli emergenti ceti borghesi di cui esaltava la nuova etica individualistica ed il pionierismo da epopea. Fu solo con il fascismo, invece, che la pallacanestro divenne sport diffuso nel mondo maschile, esaltando lo spirito di squadra e l’etica pubblica sottesa alla concezione organicistico-nazionalista del regime. Si capisce in questo senso quanta importanza potessero acquisire negli anni Trenta le squadre nazionali, proprio nell’ottica di sviluppare una propaganda all’estero attuata dal regime, contestualmente alle vittorie di Gino Bartali al Tour de France del 1938 ed alle due vittorie nei campionati mondiali del 1934 e del 1938, dei calciatori guidati da Vittorio Pozzo. È comunque un dato rilevante che la Federazione nazionale pallacanestro, di cui tenne la guida fino al 1942 il conte Giorgio Asinai di San Marzano (attivissimo sia sul piano interno che su quello esterno con la creazione della Fiba, una prima federazione internazionale), contasse nel 1935 1700 gruppi sportivi e 43492 iscritti.
Soprattutto nel secondo dopoguerra, poi, il basket, ormai autonomo e consolidato come sport anche nel nostro paese, fu un veicolo di penetrazione del modello consumistico che dall’America andava conquistando tutta Europa sull’onda del benessere e dei nuovi prodotti messi in commercio. Fu una particolare forma di adattamento dell’american way of life che si declinò, come i due autori non mancano di chiarire nei successivi capitoli, non solo in un modello di pratica sportiva ma anche di organizzazione dei gruppi e delle squadre, con impianti sempre più spiccatamente proiettati alla dimensione imprenditoriale e persino commerciale (e l’arrivo di “fuoriclasse” americani, come i due autori non mancano di dire, fu un elemento decisivo anche su questo versante); ed ancora in cambiamenti di ordine politico e sociale, con la sempre più profonda compenetrazione tra la pallacanestro e la politica italiana fino alla elezione a presidente della Fip, a metà degli anni Ottanta, del ministro degli Esteri socialista Gianni De Michelis.
Un modo nuovo e senza dubbio originale, dunque di guardare al paese guardando alla trasformazione che la pratica di uno sport particolare ed “estero” come la pallacanestro ha subito nel corso del tempo. Un contributo senza dubbio di grande originalità ed interesse alla tematizzazione dello sport come grande fatto sociale dell’età contemporanea e come tema di ricerca indiscutibilmente meritevole di attenzione nuova e di una definitiva legittimazione.