Tito Menzani
Il movimento cooperativo italiano è oggi una realtà imprenditoriale di successo, che ha saputo adeguarsi ai cambiamenti epocali del Novecento e affacciarsi sul XXI secolo con una rinnovata vivacità. Segmentata in vari settori merceologici, la cooperazione italiana è anche tornata al centro delle attenzioni di una parte del mondo accademico, con studiosi di varia formazione che si sono interessati dei numerosi aspetti che la connotano.
Alcuni di questi percorsi di ricerca – storiografici, aziendalistici, sociologici o di altre discipline – hanno avuto un input dall’interno del movimento cooperativo, perché è interesse precipuo dei cooperatori meglio comprendere la natura delle proprie imprese e le possibilità di sviluppo che hanno. Naturalmente, come sempre accade in questi casi, alcune realtà sono state più sollecite di altre nel coinvolgere la comunità scientifica e, dunque, nel promuovere iniziative culturali e di ricerca di vario genere.
Tra le imprese cooperative maggiormente vocate a questo genere di investimenti, possiamo certamente includere Unicoop Tirreno, storica cooperativa fra consumatori con sede a Livorno, che di fatto ha un bacino d’utenza che comprende la Toscana occidentale, parte dell’Umbria, il Lazio e la Campania. In tutta questa zona, Unicoop Tirreno gestisce 111 punti vendita a marchio Coop – 64 minimarket, 38 supermercati e 9 ipermercati – e riunisce circa 850.000 soci, che rappresentano circa i due terzi dei suoi clienti.
Anche per queste ragioni, si può certamente affermare che Unicoop Tirreno è uno dei pilastri della cooperazione di consumo italiana, che nel 2004 ha compiuto 150 anni di storia e le cui origini, quindi, affondano nell’Italia degli Stati preunitari. Da un po’ di tempo, Unicoop Tirreno ha iniziato ad investire con maggior convinzione in progetti culturali: tra le tante iniziative messe in campo, ricordiamo la creazione di un Archivio storico presso l’ex sede di Coop Unione Ribolla, che è diventato l’epicentro di numerosi eventi culturali, di ricerca e divulgativi.
Entro questa cornice, si inscrive pure il volume Identità e cambiamento. Marchi distintivi dal mondo Coop, incentrato in un lungo colloquio tra Enrico Mannari, docente di Comunicazione organizzativa presso l’Università di Firenze e curatore dell’Archivio storico prima ricordato, e Sergio Costalli, vicepresidente e amministratore delegato di Unicoop Tirreno, dove di fatto il primo intervista il secondo. Si tratta di una serie di scritti, dedicati ad argomenti differenti, già apparsi sul periodico “Ogni Quindici”, che vengono qui rimaneggiati e rieditati in un continuum di lettura, e accompagnati da un saggio di Luca Toschi, ordinario di Teoria e tecnica della comunicazione generativa all’Università di Firenze e direttore del Communication Strategies Lab.
L’interesse del volume è trasversale a tante discipline, anche se gli studiosi di storia contemporanea, di scienze della comunicazione e di scienze organizzative in genere hanno probabilmente qualche ragione in più degli altri per dedicarsi a questa lettura. Infatti, i temi affrontati da Costalli vertono soprattutto – come ci ricorda il titolo del libro – sui concetti di identità e di distintività della cooperazione di consumo, e sulle trasformazioni che essa ha affrontato per adeguarsi ai cambiamenti, senza snaturare il proprio modo di essere.
Del resto, è questo uno dei leit-motiv che hanno scandito le fasi della cooperazione italiana, sorta un secolo e mezzo fa con intenti sostanzialmente politico-sociali, in riferimento alla tutela del reddito e dell’occupazione, all’emancipazione delle classi subalterne, alla creazione di un sistema economico alternativo a quello classico, e che poi si è ritrovata ad operare, e in tantissimi casi a prosperare, in un contesto assolutamente diverso, ossia in una società permeata dal benessere, nella quale il consumo non era più semplicemente un’esigenza ma un tratto distintivo della condizione sociale.
Questo cambiamento di paradigma ha letteralmente rivoluzionato la cooperazione, modificandone l’impostazione, il rapporto con gli stakeholders, l’atteggiamento “politico”. In realtà, però, se una parte di queste novità ha letteralmente travolto il movimento cooperativo, che in un certo senso è stato vittima del cambiamento, un’altra parte comunque consistente di trasformazioni è stata frutto di una maturazione e di una riflessione endogena. Vale a dire che la cooperazione ha anticipato certe tendenze e si è preoccupata di adeguarsi ai tempi nella maniera più indolore possibile, cercando di rinnovare senza rinnegare.
Il colloquio tra Costalli e Mannari procede proprio in questa direzione. Sono affrontati vari spunti di riflessione per porre interrogativi sul passato, sul presente e sul futuro della cooperazione di consumo, e per cercare di capire che cosa occorre fare oggi per evitare di essere in difficoltà domani.
Negli undici capitoli che compongono l’intervista (Normalità; Esserci; Memoria; Ovo sodo; Futuro; Persone; Crisi; Sud; Vivere meglio; La città co-operativa; Non siamo soli) si spazia fra numerosi argomenti, anche se tre sembrano occupare uno spazio più ampio e destare un maggiore interesse in chi legge. Il primo, cui abbiamo già fatto cenno, è la comunicazione, che nel mondo attuale è sempre più consustanziale agli aspetti schiettamente operativi. Fare senza comunicare è oggi una diseconomia, perché è diventata cruciale l’autopromozione. Tanto più che nella cosiddetta “realtà aumentata” il volume di informazioni in circolazione ha raggiunto picchi inimmaginabili fino a qualche decennio fa.
La comunicazione – lo ricorda anche Luca Toschi nel suo saggio – si avvale di nuove tecnologie e di nuovi linguaggi, e chi non è in grado di utilizzare questi mezzi è inesorabilmente tagliato fuori dalle opportunità. Il semplice “operare” non può essere considerato un surrogato del “comunicare”, come nella popolare contrapposizione proverbiale tra “dire” e “fare”, perché si tratta di questioni differenti pur se collegate tra loro. In ambito cooperativo, le lacune in fatto di “comunicazione” hanno prodotto storicamente dei guasti enormi, e ancora oggi le imprese autogestite continuano ad essere percepite da una parte dell’opinione pubblica in maniera non consona, per non dire negativa, in un coacervo di pregiudizi che sono frutto di un immaginario collettivo ereditato del passato, sul quale la cooperazione di oggi non si è mai troppo preoccupata di intervenire.
Il secondo aspetto è per certi versi irrelato al primo, ed è quello che possiamo definire della “normalità” della cooperazione. È un concetto che nel libro viene esplicitato in apertura da Costalli e che poi ritorna continuamente, quasi a richiamare l’attenzione del lettore su uno dei temi più controversi della cooperazione. Il concetto di “normalità”, infatti, si presta ad una duplice interpretazione, con effetti assolutamente opposti. Da una parte è il segno di una volontà di integrazione – e, quindi, è positivamente intesa come una voglia di inclusione e condivisione di determinati principi –, dall’altra è un riferimento all’omologazione e all’appiattimento, quindi, in negativo, all’annullamento delle specificità e allo snaturamento di una propria identità distintiva.
Se si tirano le fila del discorso impostato da Costalli, si arriva al paradosso che la cooperazione vive questa contraddizione da un po’ di tempo, divisa fra una volontà di essere impresa e di confrontarsi nel mercato, e la rivendicazione di una natura diversa, perché le regole che governano l’impresa classica non sono le stesse di quelle dell’impresa cooperativa. A ben vedere, i due concetti non sono un ossimoro, perché fanno riferimento a sfere aziendali differenti, ossia l’efficienza organizzativa e l’impegno sociale, ma nel dibattito corrente, e quindi nelle strategie comunicative, rischiano di essere pericolosamente confusi.
L’opinione pubblica è sensibilizzata da due diversi echi provenienti dal mondo della cooperazione: il primo è quello che vuole mettere in risalto l’efficienza e l’operatività della cooperazione e che dice “siamo imprese come tutte le altre”, il secondo, invece, si sforza di sottolineare la vocazione sociale della cooperazione, e dice “la nostra è un’impresa differente”. Va da sé che si tratta di una contraddizione che il movimento cooperativo deve al più presto risolvere, pena l’incomprensione da parte dell’opinione pubblica.
Il terzo aspetto che emerge con forza nel volume è quello della “storia del movimento cooperativo”, intesa in senso lato come processo di costruzione di un’identità, di una memoria collettiva e soprattutto di un patrimonio – economico-aziendale, umano, di know-how, ecc. –, frutto di un lunghissimo processo di accumulazione e reinvestimento, che rischia oggi di essere travisato e liquidato come un “essere diventati ricchi”.
Al di là di una sorta di appendice conclusiva molto interessante, in cui sinteticamente Mannari ripercorre la nascita e lo sviluppo di Unicoop Tirreno, infatti, il rapporto fra passato e presente è uno degli ingredienti che compongono il libro. È indubbio che la cooperazione sia intimamente legata ai concetti di sacrificio e dedizione, soprattutto nelle fasi pionieristiche, e che nella seconda metà del Novecento abbia raggiunto importantissimi traguardi economici. La coscienza e la conoscenza della propria storia sono fondamentali – ancora una volta in un’ottica di comunicazione pubblica – per fugare ogni eventuale vergogna, e anzi parlare con orgoglio del proprio successo imprenditoriale.
L’analisi del passato e le motivazioni che hanno spinto i cooperatori dell’Ottocento e del primo Novecento devono rappresentare un patrimonio il più possibile condiviso dall’opinione pubblica, nella consapevolezza che la ricchezza creata non è, oggi, di esclusiva proprietà dei soci della cooperativa, ma è anche dei soci di domani e di quelli che ancora dopo verranno. È questa la grande forza che può animare – o rianimare – la vocazione etica della cooperazione, ossia la creazione di un valore aggiunto che si chiama attenzione per il territorio e per le comunità. La storia e la tradizione di questo movimento ci dicono che la cooperativa è un’impresa “come tutte le altre” con la peculiarità che non può delocalizzare, che non può essere acquistata da una multinazionale, che risponde alle esigenze dei propri soci, e che pertanto “appartiene” ad un contesto geografico, nel quale crea ricchezza, occupazione e opportunità.
Si tratta di concetti apparentemente banali, ma che sono sconosciuti a tutti coloro che ancora percepiscono le cooperative come delle organizzazioni che vivacchiano fra privilegi fiscali e rapporti clientelari con la politica, secondo uno stereotipo diffusosi nel primo Novecento e poi rafforzato dalla propaganda fascista.
Anche per queste ragioni, il volume qui recensito ha il grande merito di mettere in luce i punti cruciali sui quali la cooperazione deve discutere ed investire per guardare oltre e darsi una strategia comunicativa univoca e chiara, a colmare quelle lacune ad oggi riscontrabili.