di Giuliana Bertagnoni
La prima parte dell’articolo racconta le radici identitarie della cooperazione agricola emiliano-romagnola, stimolata dall’abbondanza di braccia e dalla carenza di lavoro, che hanno indotto le ideologie ottocentesche a favorire, attraverso la cooperazione bracciantile, soluzioni pratiche a questo bisogno. Parallelamente, l’introduzione di nuove colture e l’intensificarsi dei rapporti con l’industria hanno fatto nascere esigenze associative anche nei produttori agricoli, per la trasformazione e la commercializzazione, coinvolgendo inizialmente soprattutto l’associazionismo padronale. Nella seconda parte si tematizza la grande spinta verso la cooperazione del secondo dopoguerra, di matrice prevalentemente popolare, in un contesto di grande partecipazione democratica in reazione alla dittatura. Parallelamente, lo Stato promuove la piccola proprietà contadina, che si afferma come il modello prevalente nelle campagne della regione. In questo contesto, la cooperazione si radica in uno spazio diverso rispetto alla proprietà dell’impresa, che rimane del singolo produttore, il quale si associa per la gestione di alcune fasi della produzione, per operare la trasformazione dei prodotti, per la commercializzazione. Questo processo di aggregazione permette ai piccoli produttori di acquisire una capacità competitiva sul mercato che come singoli non avrebbero potuto raggiungere, offrendogli l’opportunità di continuare un’attività che diversamente avrebbero dovuto abbandonare. Il legame persistente con le ideologie politiche, che promuovono la cooperazione come esempio di democrazia economica perché è il lavoro che gestisce l’impresa e non il contrario, consolida in questa regione il successo del modello, costruendo attorno ad esso la solidarietà fra produttori (nelle campagne) e consumatori (nelle città), che è la ragione profonda del radicamento territoriale.Abstract
The first part records the roots of farm cooperation in the Emilia-Romagna region, stimulated by the abundance of manpower and the lack of work, which led 19th century ideologies to promote, through labour cooperation, practical solutions to this need. At the same time, the introduction of new crops and intensified relations with industry gave rise to the need to associate also among farmers, in the fields of processing and marketing; initially, it mainly involved the association of landowners. Part II focuses on the surge in cooperation after World War II, mainly characterized by ordinary people in a context marked by great democratic participation, as a response to dictatorship. Parallely, the State promoted small farming property, which became the prevalent model in rural areas of the region. In this context, cooperation was classed in a different category from company ownership, which remained the property of a single manufacturer, who associated himself to others in order to manage certain phases of production and subsequent processing and marketing. This kind of aggregation allowed smaller manufacturers to gain a competitiveness in markets which they could not reach as individuals, by offering them the opportunity to continue an activity which they would otherwise have to abandon. The persistent link with political ideologies promoted cooperation as an example of economic democracy. It is labour that manages the company and not the other way around. This consolidates the success of the model in this region, fostering solidarity between producers (in rural areas) and consumers (in towns), which is the fundamental reason for territorial rooting.Abstract English
Introduzione
Prosegue il nostro viaggio nella storia della vocazione agroalimentare della regione Emilia-Romagna da una particolare lente di ingrandimento, quella del modello cooperativo di impresa che ha dato, riteniamo, particolare impulso al settore primario nella realtà territoriale presa in esame. Nell’articolo L’agroalimentare cooperativo dalle origini a Fico. Breve excursus storico sulla food valley italiana («Storia e Futuro» n. 45, dicembre 2017), abbiamo ricostruito le caratteristiche di sviluppo, nel corso del ’900, dell’agroalimentare cooperativo, che rappresenta oggi una realtà economica di grande rilievo (con circa 12.947 milioni di euro di fatturato nel 2016). Trattiamo adesso le fasi evolutive delle diverse filiere1, in modo da toccare con mano, attraverso le storie d’impresa, l’importanza di questo comparto nell’economia regionale. I casi citati sono, evidentemente, esemplificativi del fenomeno generale, che interessa il territorio in modo profondo e reticolare. Il nostro approccio intende essere descrittivo, rischiando la ripetitività, per consentire al lettore, attraverso la molteplicità di fili che si aggregano e si disgregano, in un tessuto composito e in costante movimento, di capire la complessità e pervasività del sistema, tanto da costituire un modello generale di sviluppo del territorio.
TABELLA 1
Le principali cooperative dell’Emilia Romagna per fatturato (2016) | ||||||
Ragione sociale |
Fatturato 2016 (mln €) |
Settore | Provincia | |||
1 |
CONSORZIO GESCO (1) |
1.420,0 |
Carni avicole | FC | ||
2 |
GRANLATTE – GRANAROLO |
1.192,3 |
Lattiero-caseari (prev. Latte e prodotti freschi) | BO | ||
3 |
CONSERVE ITALIA |
841,2 |
Ortofrutta trasformata | BO | ||
4 |
GRANDI SALUMIFICI ITALIANI SPA (2) |
656,2 |
Carni suine | MO | ||
5 |
CANTINE RIUNITE & CIV SOCIETA |
565,4 |
Vino | RE | ||
6 |
CONSORZIO GRANTERRE – PARMAREGGIO |
325,8 |
Lattiero-caseari (prev. Prodotti stagionati) | MO | ||
7 |
PROGEO |
306,3 |
Servizi (mangimi, cereali, ecc.) | RE | ||
8 |
APO CONERPO SOC. COOP. AGRICOLA |
303,7 |
Ortofrutta fresca | BO | ||
9 |
CAVIRO |
303,5 |
Vino | RA | ||
10 |
APOFRUIT ITALIA |
291,4 |
Ortofrutta fresca | FC | ||
11 |
AGRINTESA |
260,2* |
Ortofrutta fresca | RA | ||
12 |
CLAI |
241,5 |
Carni suine e bovine | BO | ||
13 |
COPROB |
231,1 |
Zucchero | BO | ||
14 |
OROGEL |
227,5 |
Ortofrutta fresca e trasformata | FC | ||
(1) La cooperativa gravita nell’orbita del gruppo Amadori. (2) Grandi Salumifici Italiani spa è stata inserita | ||||||
in quanto joint-venture con rapporto paritetico privato-cooperazione
(*) Bilancio non consolidato Fonte: elaborazioni Osservatorio della Cooperazione Agricola Italiana su dati Agci-Agrital, Fedagri-Confcooperative, Legacoop Agroalimentare e Unicoop, in Osservatorio della cooperazione agricola italiana, Rapporto 2017, p. 63. |
La cooperazione molitoria, di servizi, conduzione terreni e “mista”
La cooperazione di servizi ha conservato un protagonismo rilavante fino al presente, come evidenzia il fatturato 2016 di Progeo (cfr. tab. 1), che opera in questo comparto.
Progeo nasce dall’aggregazione di imprese operanti nel settore molitorio, che fu uno dei primi interessati dalla cooperazione di trasformazione. I coltivatori di grano e orzo o frumento vivevano una situazione di subalternità nel mercato: dovendo coprire le spese di coltivazione, avevano fretta di realizzare liquidità dalla vendita delle farine destinate al commercio, oltre che all’autoconsumo e all’alimentazione del bestiame. Così, dopo il raccolto, l’aumento dell’offerta faceva calare il prezzo e solo chi poteva permettersi di aspettare a vendere realizzava guadagni molto più consistenti. Nel secondo dopoguerra, il razionato dei consumi accentuò il carattere speculativo del settore, che si trovava in una situazione di sostanziale monopolio e approfittava dell’incertezza del momento, con operatori che avevano comportamenti scorretti o addirittura dolosi nella restituzione del prodotto lavorato nei mulini. Ai contadini del comprensorio di Masone, nel reggiano, la cooperazione sembrò una risposta utile ad emanciparsi da questa situazione: nel 1945 affittarono un impianto e costituirono la prima cooperativa molitoria della regione. Era l’inizio di un innovativo sviluppo della cooperazione fondata sul conferimento, che si diffuse rapidamente in gran parte della pianura reggiana, interessando anche il modenese e il bolognese: il contadino, tendenzialmente piccolo proprietario, mezzadro o affittuario, dava il suo prodotto al mulino, il quale gli versava subito un 50% del suo valore, e il saldo ad esaurimento dell’ammasso, calcolati i costi e i ricavi della trasformazione e della vendita. La possibilità di ritardare la commercializzazione delle farine consentiva il graduale rincaro del prezzo, rendendo il produttore più forte sul mercato. A superare l’anello debole del sistema, cioè la possibilità di ottenere credito, provvedevano le reti della solidarietà sociale degli ambienti della sinistra reggiana, nelle quali il modello cooperativo era radicato, favorendo prestiti personali o bancari. Negli anni ’60 i molini cooperativi ebbero uno straordinario sviluppo, con la trasformazione del Consorzio provinciale delle cooperative agricole (Cpca), che, dopo l’accorpamento dei molini di Fabbrico e Masone, da consorzio di servizi a base cooperativa divenne una struttura che associava migliaia di produttori. L’aggregazione di altri molini permise di effettuare economie di scala e di allargare la base sociale ad agricoltori piacentini, parmigiani, mantovani e cremonesi, tanto che nei primi anni ’70 l’impianto di Masone era una delle strutture più grandi ed avanzate di tutta l’agroindustria italiana. Nel tempo, la crescita fu caratterizzata, oltre che dalla fusione fra mulini, dalla diversificazione, grazie in particolare alla fabbricazione industriale di mangimi. Realtà come questa hanno traghettato i produttori fino al presente, consentendo anche a piccole aziende di affrontare i processi di modernizzazione e innovazione, trasformandole, come corpo unitario cooperativo, in un soggetto forte sul mercato. Oggi infatti Progeo (cfr. tab. 1), nato nel 1992 dall’unificazione delle tre principali cooperative di servizio all’agricoltura esistenti a livello nazionale (il Cpca di Reggio Emilia e le Apca di Modena e Bologna), associa singoli agricoltori e società operanti nella produzione agricola e zootecnica, trasformando o vendendo direttamente sul mercato i cereali, le colture oleaginose e proteiche dei propri soci, disponendo di una rete commerciale di società controllate, fornendo anche assistenza tecnica. La mission aziendale è incentrata sulla promozione e valorizzazione delle filiere necessarie alle produzioni italiane di qualità.
Accanto all’evoluzione della cooperazione molitoria, nel corso del tempo si trasformarono pure le storiche cooperative di conduzione terreni: nei processi di fusione e aggregazione che tutta la cooperazione intraprese nel suo lungo percorso di crescita, nacquero cooperative che avevano ruoli misti, come la conduzione di terreni, di proprietà collettiva o divisa, e attività commerciali o di servizio, per cui la stessa cooperativa svolgeva la coltivazione della terra e/o la gestione del parco macchine e/o l’acquisto all’ingrosso di concimi e anticrittogamici e/o la collocazione sui mercati dei prodotti agricoli, eccetera. Queste cooperative si sono ritagliate un settore di interesse principale, pur conservandone molteplici. Vediamo gli esempi principali, esemplificativi ai fini della nostra panoramica.
Fermandoci nel reggiano, una realtà nata da cooperative storiche locali è la Cila, Cooperativa intercomunale lavoratori agricoli, costituita nel 1979 dalle cooperative agricole di Santa Vittoria e di Novellara, nel reggiano nei primissimi anni del ’900.
Santa Vittoria era un borgo di braccianti poveri, in cui prevaleva la proprietà terriera di carattere nobiliare, facente capo soprattutto ai conti Greppi di Milano. Qui nacque, nel 1890, una cooperativa di lavoro per acquisire appalti, che fra il 1900 e il 1902 divenne anche cooperativa agricola per l’affittanza collettiva dei terreni, con risultati non solo positivi, ma fortemente innovativi. Dopo un fallito tentativo della cooperazione cattolica, nel 1908-1909, di istituire nella ex tenuta Greppi un’affittanza da condurre in forma divisa, a fronte di una fase difficile dettata dalla venuta meno del supporto del Comune nel quale i socialisti avevano perso la maggioranza, nel 1911 la cooperativa di lavoro fece un salto di qualità: costituì una cooperativa agricola per acquistare la tenuta Greppi, realizzando una struttura che si avvicinava al modello di cooperazione integrale propugnato da Antonio Vergnanini, il fondatore della Camera del lavoro di Reggio Emilia. Con queste caratteristiche: una parte del lavoro dei soci era pagata non in denaro, ma in natura o in buoni da utilizzare presso la locale cooperativa di consumo, della quale erano soci tutti i capifamiglia della cooperativa agricola; la realtà cooperativa si estendeva anche al mulino, al macello e al caseificio, tutte collocate nel palazzo Greppi e integrate in modo da rendere il villaggio autosufficiente nella produzione e nella disponibilità dei beni alimentari essenziali; le diverse realtà cooperative rappresentavano quasi un’unica “cooperativa sociale”, in cui ogni lavoratore era insieme creditore per le ore di lavoro prestate e debitore per i consumi effettuati, senza differenze salariali tra direzione ed esecuzione. Si può parlare di “cooperazione integrale” per la prima fase della vita della cooperativa agricola, che fu lo stimolo per il successo di un’impresa tanto temeraria da acquistare una grande tenuta, sostenendo spese di avviamento, introducendo innovazioni tecniche, acquistando macchine, senza una dotazione di capitale iniziale. L’integrazione con la Federazione provinciale delle cooperative agricole e con le altre cooperative locali, che permetteva di raggiungere l’autosufficienza nel paese, garantiva lo sbocco di mercato. La cooperativa aveva istituito per statuto un fondo collettivo “per gli eventuali infortuni di campagna” e un fondo di mutua assistenza “per inabilità dovuta a vecchiaia o malattia”. Tutti i soci della Braccianti erano anche soci dell’Agricola e i capifamiglia delle due cooperative erano iscritti anche alla cooperativa di consumo.
La forma cooperativa e la gestione democratica, la comunanza ideologica, la sfida verso gli avversari, la volontà di dimostrarsi all’altezza della gestione di un’impresa senza la presenza del padrone fornirono la coesione necessaria per affrontare anni di grandi sacrifici e sofferenze di bilancio, rafforzando la cooperativa e preparandola a sopravvivere a oltre centro anni di storia. La Cila, costituita, come si diceva, nel 1979, aderente a Legacoop, è una delle cooperative di conduzione terreni che ha saputo non solo sopravvivere, mentre molte altre cooperative nate con le stesse finalità statutarie sono fallite, ma che ha dimostrato grande capacità di adattamento, diversificando la sua attività e ritagliandosi una nicchia di sviluppo, coltivando oggi terreni a cereali e foraggere che, macinate nel mulino aziendale, vengono trasformate in mangimi destinati all’allevamento, per la produzione del Parmigiano Reggiano e del prosciutto di Parma.
Spostandoci per la via Emilia, in direzione est, troviamo la cooperativa di conduzione terreni di stampo cattolico Foscherini di San Martino in Spino, una frazione di Mirandola, nel modenese: nata nel 1948 grazie alla presenza di un parroco particolarmente attivo, che aiutò il sindacato a organizzare i braccianti, la proprietà indivisa della terra e dei beni ne hanno garantito la sopravvivenza fino al presente (al contrario di cooperative coeve, che avevano chiuso dopo che la terra era stata divisa fra i soci). E proseguendo verso Bologna, troviamo la società cooperativa agricola Il Raccolto, nata dalla fusione di due grandi storiche realtà cooperative del bolognese, la Onorato Malaguti di San Pietro in Casale e la Luciano Romagnoli di Baricella, a loro volta derivate da varie fusioni avvenute nel tempo tra le cooperative bracciantili costituite sin dall’immediato dopoguerra.
Cooperative di questo genere nel nuovo millennio hanno sviluppato attività innovative collaterali a quelle tradizionali: recependo vari regolamenti comunitari e direttive regionali, hanno destinato estese superfici agricole al ripristino di zone umide, prati, complessi macchia e radura, boschetti e boschi permanenti, che hanno consentito il potenziamento della biodiversità locale.
Approdando in Romagna, soffermiamoci sulla realtà ravennate, per la rilevanza della cooperazione agroalimentare in quest’area. La Cooperativa coltivatori diretti di Conselice, gravitante nell’alveo della Coldiretti e della Federconsorzi, era sorta nel 1962 dalle ceneri della Società anonima Cooperativa agricola di Conselice, fondata da un gruppo di coloni nel 1908 e sciolta nel 1944.
Conselice era la roccaforte socialista della bassa Romagna, una zona di risaie e bonifiche dove il bracciantato, numeroso e combattivo, era stato organizzato da Nullo Baldini, che aveva fondato la prima cooperativa braccianti (1883) e, poi, la Federazione delle cooperative di Ravenna. A fare da contraltare a questa realtà, nel 1908 una trentina di coloni fondò la Società anonima cooperativa agricola di Conselice, per «migliorare progressivamente la condizione economica e morale dei lavoratori della terra» e gestire in società alcune macchine trebbiatrici che erano la grande novità della meccanizzazione agricola. Nel 1911 la società possedeva due trebbiatrici Garett, due sgusciatrici di semi per granoturco e un apparecchio per la trebbiatura del riso, ponendo la cooperativa all’avanguardia nel panorama agricolo dell’epoca. Un maestro elementare svolgeva le mansioni di contabile.
La cooperativa aderì alla Federazione autonoma, una centrale cooperativa repubblicana di carattere locale, che si contrapponeva alla Federazione delle cooperative di Baldini. I romagnoli avevano una lunga tradizione politica repubblicana, che aveva rapporti conflittuali con la Chiesa, a seguito della vicenda risorgimentali e del ruolo esercitato dal papato nel processo di unificazione italiano. I mezzadri della Società anonima di Conselice, tuttavia, erano per lo più legati alla parrocchia.
In contrapposizione a questa realizzazione, i socialisti conselicesi diedero vita alla Cooperativa coloni, piccoli proprietari e piccoli affittuari del comune di Conselice, diretta da Paolo Fabbri, aderente alla Federazione, che si occupò della vendita collettiva di materiali agricoli.
La sede della cooperativa repubblicana divenne un punto di riferimento paesano e il contraltare della Casa del popolo, che era punto di riferimento della cooperativa socialista. La conflittualità fra le due realtà, divenuta molto acuta nella cosiddetta settimana rossa del 1914, si stemprò con l’insorgere del regime totalitario e con la fascistizzazione della cooperativa repubblicana, che nel 1944 fu sciolta e, nel 1962, come dicevamo, ricostituita con il nome di Cooperativa coltivatori diretti di Conselice. Scartata l’idea di cimentarsi nel comparto ortofrutticolo, nel quale operavano già altre realtà, i cooperatori della Conselice scelsero di attivarsi nel settore vitivinicolo. Nel 1976, diedero vita al Cesac, Centro economico servizi agricoli, per realizzare l’acquisto di macchine necessarie alla coltivazione della barbabietola e di agroforniture, che nel 1993 incorporava il Consorzio bolognese acquisti collettivi (Conbac) e incentrava il suo core business sulla produzione cerealicola (grano, granoturco, sorgo, soia, orzo), procedendo anche al salvataggio della storica cooperativa Tre Spighe. Nel 2008 la Conselice, persi molti soci che avevano usufruito degli incentivi per abbattere i vigneti, si fuse per incorporazione con il Cesac, prendendo il nome di Cesac e cantina s.c.a. Cesac è oggi una cooperativa agricola multi settoriale che comprende il settore orticolo, la grande distribuzione e i prodotti di IV gamma (cioè i prodotti ortofrutticoli pronti per il consumo), il settore cerealicolo, il settore vitivinicolo, le forniture di agrofarmaci, di concimi e di sementi, una ferramenta, una specializzazione nella microirrigazione, un mangimificio e l’assistenza tecnica. Sviluppa un fatturato oltre i 50 milioni di euro, con 1.200 soci conferenti su 8 stabilimenti dislocati in tre province dell’Emilia-Romagna: Bologna, Ravenna, Ferrara.
La sensibilità associativa radicata in quest’area della regione ha dato vita a molteplici realtà in questo comparto, come la cooperativa Libertà e Lavoro, che nacque nel 1950 da un gruppo di mezzadri e di braccianti di Castiglione di Ravenna attivati dai valori della solidarietà cristiana. La cooperativa, pur muovendo i primi passi in un contesto difficile per la conflittualità sociale animata dal movimento contadino socialcomunista, è oggi ancora attiva. Nel ravennate, inoltre, le Cab, Cooperative agricole braccianti, hanno avuto un radicamento capillare, che è rimasto tale malgrado le fusioni e gli accorpamenti. La Cab di Campiano, per esempio, nata nel 1907, ha aggregato nel corso del tempo le Cab di Ghibullo, Carraia e San Pietro in Vincoli, San Bartolo, San Zaccaria e Santo Stefano; la Cab del comprensorio di Cervia, a 17 chilometri di distanza, è sorta nel 1992 dalla fusione di quattro realtà: La Cab di Cervia, Castiglione di Cervia, Castiglione di Ravenna e Savio. La società cooperativa Agrisfera, nata alla fine di un lungo processo di aggregazione di cooperative agricole di braccianti, la prima delle quali era del 1907, è oggi una delle più grandi cooperative agricole ravennati, con circa 280 soci (di cui 129 attivi), 4.000 ettari di terreno in proprietà tra le province di Ravenna e Ferrara, un totale ricavi di circa 12 milioni di euro.
Costituita nel 1991, anche la Cooperativa Terremerse è il risultato dell’integrazione di diverse cooperative, sul ceppo originario della Coras, nata nel 1981 dalla Capsc, che era derivata dalla Cooperativa servizi a coloni, piccoli proprietari e affittuari di Massa Lombarda, fondata nel 1911. La Coras, che era stata protagonista negli anni ’80 della lotta agli antiparassitari, gestiva gli ammassi cerealicoli, e il comparto mangimistico e zootecnico. Nel corso del tempo molteplici esperienze cooperative, in maggioranza Legacoop, ma anche Agci e Confcooperative, in provincia di Ravenna, Ferrara e Imola, in diversi settori, hanno convogliato le proprie risorse e le proprie esperienze in Terremerse, come la Cooperativa frutticoltori di Massa Lombarda, nata nel 1922, la Cooperativa ortofrutticoltori di Mezzano (Com, 1956), quella ravennate di Lavezzola (Cor, 1961), quella di Savio (Cos, 1962), la Cora, poi Cor, Consorzio ortofrutticolo ravennate, nato nel 1961 per la distribuzione all’estero. Infine anche la Pempa, Cooperativa fra piccoli e medi produttori agricoli, nata nel 1953 a Imola, che era stata una delle principali cooperative ortofrutticole della regione, assumendo anche un ruolo di assistenza nei confronti degli associati, e che, dopo una storia di successi, era entrata in una profonda crisi, nel 2002 fu integrata in Terremerse, che è oggi una realtà consolidata nel settore agroalimentare, nelle aree di mercato dei cereal-proteici, dell’ortofrutta, delle agroforniture, delle macchine e attrezzature agricole, dell’irrigazione, impiantistica e drenaggio e delle carni.
La cooperazione saccarifera
La barbabietola era un prodotto delicato, facilmente deperibile e fortemente stagionalizzato, ma anche potenzialmente redditizio. Nel secondo dopoguerra Il settore dello zucchero era controllato dalle concentrazioni capitalistiche dei maggiori gruppi industriali del nord, che lasciavano poca autonomia ai produttori. Mentre in Europa (Germania, Francia, Olanda, Belgio) la cooperazione aveva riequilibrato il rapporto di forza tra agricoltura e industria saccarifera, in Italia sembrava una sfida impossibile: si trattava di un mercato molto competitivo, con alte barriere all’entrata per gli investimenti iniziali richiesti. Date queste premesse, per il nucleo storico di produttori, collocato in una delle aree non solo più vocate alla coltivazione delle barbabietole da zucchero, il bolognese, ma anche di maggiore spinta all’associazionismo, la possibilità di tutelare il reddito con la cooperazione assunse un valore simbolico.
Con il sostegno dell’Ente di colonizzazione del Delta Padano, nel 1962 si costituì la Cooperativa produttori bieticoli, Coprob, per prendere in gestione lo zuccherificio di Minerbio realizzato nel 1960 dal Consorzio Cica. Le normative comunitarie provocarono la crisi del settore e la concentrazione delle imprese, con una situazione di oligopolio dei più grandi gruppi, i quali poi entrarono a loro volta in difficoltà. Tuttavia, malgrado i problemi, la cooperativa era riuscita a crescere, beneficiando degli interventi di rilancio statale al settore: nacque Ribs, Risanamento industriale bieticolo saccarifero, una finanziaria per sostenere le ristrutturazioni aziendali del comparto, che rimase nella base sociale di Coprob per una ventina d’anni. In un mercato regolamentato e contingentato, l’unica possibilità per lo sviluppo dimensionale era comprare impianti già in essere, prima nel contesto cooperativo (come, nel 1990, l’acquisizione di Coproa, l’altro zuccherificio cooperativo che era in crisi), poi, nel 1999, attraverso l’acquistò di quote di zucchero sul mercato (dagli stabilimenti di San Pietro in Casale, passato da Eridania a Sfir, e di San Giovanni in Persiceto), salvaguardando i livelli di produttività dei coltivatori locali, aumentando la propria stabilità e arrivando finalmente alla quota di 1,2 milioni di quintali di zucchero, che era un tetto produttivo che ci si era prefissato da tempo. In un contesto nazionale nel quale il numero degli zuccherifici si era ulteriormente ridotto, il nuovo millennio obbligò all’ammodernamento degli impianti di Minerbio e Pontelungo, portò a un fortissimo indebitamento, e alla ristrutturazione aziendale con l’incorporazione di Italia Zuccheri. Nel nuovo corso Coprob (cfr. tab. 1) ha diversificato la sua produzione nel campo dell’energia da fonti rinnovabili, diventando, nel settore zucchero, l’unico produttore cooperativo in Italia e leader nel settore bieticolo saccarifero, con una filiera certificata “100% italiano” dello zucchero prodotto.
La cooperazione lattiero-casearia
Le latterie sociali in Emilia-Romagna, che oggi rappresentano la maggior parte del comparto rispetto ai caseifici privati, costituiscono un tessuto frastagliato di piccole imprese che hanno dimostrato una notevole vitalità, grazie ai rapporti intrattenuti con la produzione agricola locale, dando vita a uno dei più importanti distretti agroalimentari italiani, quello del Parmigiano Reggiano, prodotto apprezzato fin dall’antichità, oggetto di massiccia esportazione a partire dall’800. Più in generale, la produzione del Parmigiano Reggiano coinvolge l’Emilia alla sinistra del fiume Reno, cioè le province di Reggio Emilia, Modena, Parma e in parte il bolognese, dove viene fabbricato solo il prodotto tipico, mentre l’area del Grana padano coinvolgeva tutta la Romagna, parte del bolognese e la provincia di Piacenza, e qui potevano essere confezionate anche altre varietà, quali il provolone, il gorgonzola o le crescenze.
La cooperazione cattolica, negli anni ’60, aveva dato vita ai consorzi zonali tra i caseifici, come il Consorzio zona tipica per la stagionatura del formaggio Parmigiano Reggiano, con le prime realizzazioni nei comprensori di montagna a partire dal 1967; questa e altre associazioni di secondo grado con le stesse caratteristiche non sopravvissero alla congiuntura critica degli anni ’90, che impresse un forte stimolo alla concentrazione sia nella compagine di Confcooperative, sia in quella della Lega. Tuttavia la forza della cooperazione cattolica nel settore perdurò. Nel contesto della montagna, particolarmente colpito dai flussi migratori verso la città e la pianura, il caseificio sociale è ancora oggi un soggetto importante, attorno al quale ruota l’economia dei piccoli paesi. Per valorizzare questo importante ruolo, nel 2008 è nato il consorzio Terre di montagna, che associa realtà produttive attive da più di mezzo secolo situate in territorio montano tra Modena e Bologna.
Il processo di concentrazione delle imprese interessò soprattutto la cooperazione aderente a Legacoop, che diede vita ad aggregazioni societarie articolate. È il caso del Gruppo Granterre (cfr. tab. 1), originato alla fine degli anni ’90 dal Consorzio dei caseifici sociali, Ccs, nato nel modenese nel 1959 per la lavorazione di burro e formaggio e entrato nella compagine sociale della Granarolo latte nel 1982. Da Ccs e Granarolo fu creata, all’inizio degli anni ’90, Unigrana Spa, la quale alla fine degli anni ’90 passò sotto il controllo del Ccs divenuto Consorzio Granterre, e, nel 2004, assunse la partecipazione di maggioranza di Parmareggio. Oggi il Consorzio Granterre è una cooperativa che associa 60 produttori singoli e 36 caseifici in rappresentanza di circa 1.000 imprese agricole, con un fatturato importante, come evidenzia la tabella 1.
Il Consorzio bolognese produttori latte (Cbpl), più noto con il marchio Granarolo, nacque nel 1957 dalle cooperative di raccolta organizzate dai produttori della destra Reno che si erano riuniti per ottenere migliori prezzi del latte venduto nelle stalle ai privati (Ala-Zignago e Polenghi-Lombardo). La cooperativa partiva con una forte caratterizzazione politica, non fosse altro che per la lotta ingaggiata dagli agrari che sequestrarono i camion per impedire che il latte fosse conferito alla cooperativa, forti del fatto che i patti agrari davano al proprietario il titolo di produttore di latte, mentre il mezzadro era un semplice mungitore. Anche per l’abilità dei dirigenti cooperativi l’iniziativa ebbe successo, tanto che si pensò di mettere i produttori nella condizione di controllare il processo di trasformazione del latte dalla raccolta alla lavorazione industriale e imbottigliamento, alla commercializzazione. Il consorzio registrò sin dai primi passi insperati risultati e alla fine degli anni ’60 la stessa Polenghi-Lombardo fu costretta al ritiro dal mercato bolognese. Fra il 1969 e il 1970 fece la comparsa un’altra cooperativa, la Felsinea latte, allo scopo di lavorare il latte in precedenza raccolto dalla Polenghi-Lombardo, patrocinata dalla Confcooperative e dalla Coldiretti, con il sostegno dell’Ente Delta Padano. L’iniziale concorrenza fra Granarolo e Felsinea, arricchita da elementi extraeconomici quali la diversa appartenenza ideologica e politica, fu superata dall’intuizione dei dirigenti, che intrapresero un processo di aggregazione per garantire, con una dimensione più competitiva, reddito a tutti i produttori emiliano-romagnoli. Nacque così, nel 1972, il Consorzio emilianoromagnolo produttori latte (Cerpl), che univa cooperative regionali associate alla Lega e alla Confcooperative, rappresentando un esempio unico e di forte impatto per tutto il movimento cooperativo.
Negli anni ’80, tutto il settore lattiero-caseario fu il più interessato dalla ristrutturazione dell’agroalimentare, impegnato ad acquisire una solidità dimensionale necessaria ad affrontare un mercato sempre più competitivo. Il bisogno di fusioni e accorpamenti procedette preferibilmente per via cooperativa, come nel caso Granarolo-Felsinea. In tutto il movimento cooperativo le strutture consortili (Giglio, Granarolo e Ccs) divennero stabilmente il punto di riferimento per le associate, anche per l’assistenza e il coordinamento, al posto dei vecchi consorzi e delle federazioni provinciali. La crisi del settore degli anni ’90, che portò al fallimento la Giglio (le storiche Latterie riunite, nate nel 1934, leader nel mercato del latte a lunga conservazione, producendo pure Parmigiano Reggiano e burro, dopo un tentativo di integrazione con la stessa Granarolo, furono acquisite da una grande impresa privata, la Parmalat), rappresentò un momento critico anche per Granarolo, che concentrò l’anima cooperativa in Granlatte (1998), alla quale rimasero associati i produttori che ancora oggi hanno il controllo sul Gruppo attraverso la maggioranza azionaria di Granarolo Spa, la quale rappresenta l’anima industriale e commerciale. Oggi il Gruppo Granarolo (cfr. tab. 1) ha intrapreso processi di diversificazione e di internazionalizzazione, promuovendo la produzione agroalimentare italiana nel mondo.
La cooperazione vitivinicola
L’associazionismo nel settore enologico, che era nato all’inizio del ’900 ed era stato favorito dal fascismo, era caratterizzato da una matrice moderata o conservatrice. Negli statuti di queste strutture, mezzadri e piccoli coltivatori erano esclusi dalla gestione delle cantine, che erano governate da pochi grandi imprenditori agricoli. Ancora negli anni ’60 molte cantine sociali non accettavano fra i soci i mezzadri, che pure per legge potevano liberamente disporre della loro quota di prodotto. Anche in questo comparto, le centrali cooperative si organizzarono per portare i produttori delle cantine sociali ad acquisire più forza contrattuale sul mercato. Nel giro di pochi anni, le realtà associative organizzate nel reggiano-modenese e nel ravennate-forlivese, che prevedevano un funzionamento a costi e ricavi, realizzando prezzi più competitivi degli enopoli padronali, passarono da qualche decina di soci a varie centinaia di conferitori per lavorazioni di migliaia di quintali di uva. Grazie a questa sforzo, il tessuto di piccole imprese vitivinicole emiliano-romagnole ha dato vita a un distretto produttivo che oggi rappresenta circa tre quarti della produzione regionale.
Il sistema funzionava in questo modo: gli agricoltori conferivano l’uva alle cantine sociali che, dopo la vinificazione, portavano il prodotto al consorzio che provvedeva al confezionamento e all’immissione sul mercato. In questo percorso si rafforzarono i rapporti con le cantine e con i produttori, grazie ad un’attività di consulenza volta all’ammodernamento tecnologico e all’innovazione produttiva, con l’introduzione di figure tecniche nell’organigramma aziendale. Crebbe anche la cultura commerciale: nel tempo si superò la tendenza a imbottigliare tutto il vino conferito, anche a costo di venderlo a prezzi non remunerativi, cominciando a valutare la possibilità dell’esportazione in mercati esteri per un pubblico di massa. La ripresa di Cantine Riunite, precipitata in una grave crisi nel 1965, passò attraverso la conquista dei consumatori tedeschi e statunitensi. Il dirigente dell’epoca è ricordato dal cooperatori reggiani come colui che fece bere agli americani un miliardo di bottiglie di Lambrusco come se si trattasse di una Coca-Cola italiana (Menzani, 2007).
Dagli anni ’70, le centrali cooperative elaborarono l’idea di incorporare le cantine sociali nei consorzi, cominciarono a orientarsi verso produzioni di qualità e a guardare con più attenzione ai mercati internazionali. In questa logica, nel quadro economico più generale della necessità di concentrazione dell’impresa agroalimentare, continuò il processo di accorpamento e di crescita dei consorzi di imbottigliamento e commercializzazione, sperimentando anche percorsi inediti.
Il giro di boa fu il 1986, dopo che una partita di vino prodotta in una cantina privata di Cuneo fu adulterata con il metanolo (una sostanza usata per alzare il tasso alcolico, non nociva se assunta in piccole dosi) e provocò danni permanenti gravissimi e casi di morte. Superata la tendenza a mantenere una cantina in ogni frazione, gli accorpamenti hanno consentito di intraprendere percorsi di crescita anche qualitativa delle produzioni.
In seno alla Lega, nel 1959 la Cantina sociale di Castelfranco Emilia fu la prima a sperimentare, oltre alla vinificazione, anche l’imbottigliamento, ponendosi in contatto diretto con il commercio al dettaglio e dando vita a un modello che consentiva margini di guadagno più consistenti riducendo gli operatori commerciali coinvolti. L’esempio fu seguito anche dal Consorzio cantine cooperative riunite della provincia di Reggio Emilia, che era nato nel 1950 con la stessa struttura delle Latterie cooperative riunite ed era destinato a diventare nel giro di mezzo secolo una delle principali aziende mondiali del settore. Nel 1962 a Castelfranco Emilia veniva fondato anche il Consorzio interprovinciale vini (Civ), più noto con il nome assunto nel 1984 di CIV & CIV, che intendeva gestire il confezionamento e la commercializzazione del vino conferito dalle cantine aderenti, distribuite fra Modena e Bologna, nonché lavorare i sottoprodotti della vinificazione. Nel 1969 Civ assorbì le cantine di Carpi, Ganaceto, Sorbara, Castelvetro e Castelfranco, per un totale di 3.879 soci (solo la Pempa di Imola, che a metà degli anni ’60 aveva aperto una cantina, rimase socia conferitrice). I vantaggi di questa razionalizzazione furono anche superiori alle attese, tanto che, con altri tempi e strategie, seguì questo modello pure Cantine riunite.
Contemporaneamente, negli anni ’60, a Lugo di Ravenna prendeva vita il Centro vinicolo cooperativo, Cevico, ad opera di una compagine sociale fra cui comparivano anche cinque cooperative di braccianti, che, per superare l’intermediazione, volevano mettere il prodotto direttamente al consumo mediante un unico centro di confezionamento e commercializzazione. Il polo romagnolo di Cevico rappresenta oggi una realtà che associa oltre 5.000 viticoltori, gestisce 23 marchi, con diversi segmenti di mercato (da vini di qualità, alle produzioni biologiche, al brik Sancrispino), con un imbottigliamento annuo che supera i 650.000 ettolitri di vino. Le cantine sociali aderenti (fra cui la Cantina dei Colli Romagnoli e Le Romagnole, presso le quali ci sono anche gli impianti di produzione del vino) ricevono l’uva dai produttori associati per la vinificazione.
A metà degli anni ’90 Legacoop lanciava un progetto di concentrazione basato su due poli: da una parte Coltiva, un consorzio di gestione tra CIV & CIV e Cevico, dall’altra Cantine Riunite, cercando di coinvolgere nel progetto le Cantine Ronco di Forlì (Cattabiani, 1995). In questo modo si intendeva rafforzare la struttura e fargli acquisire le dimensioni per competere sul mercato italiano ed estero, garantendo ai produttori di mantenere un ruolo nelle attività e nelle decisioni strategiche ed operative del settore. Non tutti i progetti messi in campo in quegli anni ebbero un respiro di lungo periodo, ma il comparto continuò sulla via della concentrazione: nel 2008 Cantine Riunite e CIV & CIV (cfr. tab. 1) si sono associate in un unico consorzio, con oltre 2.000 soci conferitori delle province di Modena e Reggio Emilia.
Le cooperative vitivinicole cattoliche erano collegate al circuito delle Acli o del sindacato Cisl, e trovavano appoggio nelle neonate cooperative agricole, come la Cantina sociale di Sasso Morelli, fondata nel 1951 nell’imolese; oppure, più raramente, furono generate da “gestioni separate” di cooperative collegate alle Unioni provinciali, per poi irrobustirsi grazie all’adesione di produttori, come le cantine sociali di S. Carlo e Cate-Vincooper, create rispettivamente dalla Cooperativa agricola di Castelguelfo e dalla Cooperativa produttori agricoli (Copra) di Bagnacavallo. Nel 1966, nove cooperative romagnole associate a Confcooperative fondarono la società Cooperativa agricola vitifrutticoltori italiani riuniti organizzati, Caviro, nazionale, con sede a Faenza, che fino al 1973 non si interessò dell’imbottigliamento, quanto della distillazione dello scarto producendo liquori di fascia bassa. Si trattava di una produzione senza rischi, grazie alle politiche di sostegno alle distillerie in corso in quegli anni. Nel 1985, con la fusione di Caviro con Corovin, che era un consorzio regionale con sede a Forlì per l’imbottigliamento del vino, la cooperativa cambiò completamente il suo core business. Oggi, grazie a quella fusione, il suo prodotto di punta, in Tavernello, ha reso Caviro (cfr. tab. 1) uno dei principali consorzi enologici italiani. Infatti Corovin aveva intrapreso un percorso innovativo e coraggioso, quale sperimentare l’uso di contenitori diversi dal vetro per il vino. Abbandonare il confezionamento tradizionale per il Tetrapak sembrava una pazzia, ma l’esperimento, coordinato dall’Università di Bologna, ebbe immediato successo, seppure non salvò Corovin, che entrò in crisi. Caviro, che aveva un prodotto sicuro e un mercato di nicchia, dovette superare resistenze interne notevoli alla fusione con Corovin, anche per un acceso campanilismo fra forlivesi e ravennati, ma l’operazione di salvataggio rafforzò il successo dell’impresa.
Nel 1970 la cooperazione cattolica diede vita al Consorzio emiliano-romagnolo viticoltori associati, Conervit, promosso dalle principali organizzazioni enologiche di secondo grado della regione. Poi, nel 1978 Confcooperative diede vita anche al Consorzio cantine sociali emiliane, il Ccse, al servizio dei produttori delle province di Reggio e di Modena, commercializzando produzioni di buon livello anche all’estero (soprattutto Gran Bretagna, Stati Uniti e Canada). Nel 1989 il Ccse raggruppava 10 cantine sociali per un totale di 4.500 soci, ed esportava fino all’Australia e all’Estremo Oriente. Infine, nasceva anche l’Unione cantine sociali, Ucs. Negli anni ’90 lo sviluppo prese altre strade, concentrando, oltre alle cantine, anche le strutture di imbottigliamento e commercializzazione. Il Ccse si fuse con Cantine riunite, che divenne unitario, mentre l’Ucs fu posto in liquidazione. Infatti Confcooperative, che aveva puntato con forza sui consorzi di secondo e di terzo grado, ritenuti strutture più adatte a preservare il legame con il territorio e alla conservazione della democrazia nei processi di governance cooperativa, a metà degli anni ’90 cominciò a parlare di politica di gruppo, di concentrazione delle imprese per la realizzazione di poli agroalimentari, di sviluppo di alleanze imprenditoriali di tipo verticale ed orizzontale, di strategie reticolari fra le imprese cooperative, affermando la centralità dell’impresa e la necessità del superamento del modello classico basato sui consorzi nazionali di settore (La Rosa, 1994).
Anche a livello di base, le cantine sociali, soprattutto nell’ultimo decennio, si sono accorpate, seguendo anche percorsi unitari, e indirizzate a produzioni di qualità, come la Cantina dei Colli Romagnoli, che è nata nel 2008 dalla fusione di molte cantine romagnole, non solo aderenti a Legacoop, ma anche a Confcooperative, sull’asse della via Emilia; oppure la Cantina di Carpi e Sorbara, che è nata nel 2012 dalla cantina di Sorbara, fondata nel 1923 e cresciuta assorbendo realtà sociali della zona, e dalla cantina di Carpi, fondata nel 1903, la più antica fra le cantine sociali ancora in attività, che ha accorpato le cantine della Pioppa, di Rovereto di Carpi, di Concordia, eccetera. Recente (2014) è pure la costituzione di Emilia Wine, il nuovo polo del vino reggiano, che unisce le tre storiche cantine sociali di Reggio Emilia: Arceto e La Nuova di Correggio (Confcooperative), Prato (Legacoop); e associa oltre 700 produttori, concentrando il 30% della produzione vitivinicola di Reggio Emilia, pari a 350.000 quintali di uve lavorate.
La cooperazione ortofrutticola
Il settore ortofrutticolo si sviluppò successivamente rispetto al settore molini, lattiero-caseario, vitivinicolo, e forse per questo le due principali centrali cooperative hanno agito con le stesse tempistiche di sviluppo. Nell’ortofrutticoltura sono nate numerose cooperative associate alla Lega, a Confcooperative, ad Agci o a nessuna centrale; generalmente si tratta di realtà volte alla commercializzazione di frutta e ortaggi, freschi o surgelati, alla trasformazione per le fabbriche di succhi, conserve alimentari e altri prodotti in scatola. La cooperazione in questo comparto risale alla prima metà del ’900, e anche in questo caso, come per l’associazionismo vinicolo, era per lo più di matrice padronale, localizzata nella fascia orientale della Romagna, nel triangolo fra Cesena-Imola-Massa Lombarda, dove avevano trovato più radicamento le coltivazioni ortofrutticole: la frutticoltura si stava sviluppando principalmente in Romagna e nelle province di Bologna e Ferrara; l’orticoltura era inserita in gran parte della regione e delle province, in particolare le specie del pomodoro, della patata e dell’asparago. Le prime società cooperative si costituirono nell’ambito del commercio più che della trasformazione: società cui si conferiva il prodotto per lo stoccaggio, venduto poi all’ingrosso o per una produzione. L’investimento necessario alla società era quello del “frigor”, secondo il linguaggio del tempo. L’obiettivo era eliminare la catena di intermediari tra produzione e vendita al dettaglio, in modo da contenere i costi di transazione a beneficio del consumatore e del produttore. Furono le imprese cooperative che già prestavano assistenza ai soci e gli fornivano servizi che acquistarono un frigorifero e cominciarono a gestire la vendita dei prodotti. Alla fine degli anni ’50, quando il frigorifero divenne una tecnologia diffusa, si moltiplicarono le cooperative ortofrutticole, che dovettero superare qualche difficoltà gestionale legata alla scarsa managerialità nell’organizzazione cooperative dell’epoca, ed economica, dovuta ai problemi di accesso al credito. Emersero comunque alcune realtà leader, come la Cooperativa ortolani di Imola (confluita nel 1996 nella Cofri), nata nel 1893, che nel 1947 esportava i fragoloni nel Centro Europa e si era specializzata nella vendita all’estero di altri tipi di frutta.
Anche in questo comparto la cooperazione rispose all’evoluzione dei mercati con processi di integrazione sempre più accentuati, che, come abbiamo già detto, seguì dapprima la strada della realizzazione dei consorzi di secondo e terzo grado, per poi sposare la strategia di reti e/o gruppi di imprese integrati in linea verticale o orizzontale.
La Ortolani Cofri oggi fa parte della compagine sociale di Apo Conerpo (Associazione fra i produttori ortofrutticoli del Consorzio emiliano-romagnolo fra produttori ortofrutticoli), un Gruppo ortofrutticolo di rilevanza europea, originato dall’evoluzione di Conecor. Il Consorzio emiliano cooperative ortofrutticole, Conecor, nato nel 1967 in ambito Confcooperative, a metà degli anni ’70 si costituiva di 38 cooperative ed era una delle principali realtà consortili italiane del settore, con la funzione di commercializzazione dei prodotti ortofrutticoli freschi e di coordinamento delle attività delle associate. Divenuto Conerpo, poi Apo Conerpo (cfr. tab. 1), nel 2015 associava 6.700 produttori e 44 cooperative.
Nella compagine sociale di Apo Conerpo vi è oggi anche l’esito di un altro processo di concentrazione, realizzato dall’aggregazione di cooperative storiche: Agrintesa, che è nata agli inizi del 2007 dalla fusione tra Intesa, storica realtà faentina, Agrifrut Romagna, realtà di punta della cooperazione ortofrutticola cesenate e la cooperativa Emilia Frutta di Castelfranco Emilia, fiore all’occhiello della frutticoltura emiliana, che è il risultato di numerosi processi di unificazione che hanno coinvolto dal ‘90 in poi 20 cooperative di base. Agrintesa (cfr. tab. 1), con un conferimento di produzioni ortofrutticole e uva che supera i 4 milioni di quintali, è una delle più grandi cooperative di primo grado italiane.
Mentre nel ferrarese la cooperazione cattolica si era organizzata intorno alle cooperative dell’ex Delta Padano (il gruppo Deltafrutta, il Consorzio interprovinciale ortofrutta Delta, Ciod, oggi confluite nella cooperativa Patfrut), in Romagna verteva intorno alla Cooperativa agricola fra produttori ortofrutticoli di Cesena, alla Cooperativa fra produttori agricoli faentini, Paf, e alla Cooperativa produttori agricoli, Copra, di Bagnocavallo. Paf, Copra e Solar di Godo (Fe), nel 1966 costituiscono Calpo, Cooperative associate lavorazione prodotti ortofrutticoli, un organismo di secondo grado che riuniva le imprese ortofrutticole romagnole e che si occupava della trasformazione dei prodotti. Calpo acquisì gli stabilimenti della società Valfrutta, nel 1972, per trasformare direttamente la frutta, e proseguì la vendita con questo marchio che sarebbe diventato uno dei più conosciuti della cooperazione alimentare. Si realizzava in questo modo un’importante integrazione verticale: dall’azienda agricola fino al mercato dei prodotti finiti, utilizzando le produzioni che non potevano entrare nel circuito del fresco.
Nel 1976 Calpo e altre società costituirono il Consorzio cooperative Conserve Italia, di cui facevano parte Covalpa, operante a Modena nella trasformazione degli ortaggi da industria e della frutta, Copar, attiva a Modena nella lavorazione del pomodoro, poi nei surgelati e nei succhi, Copador, di Parma, che associava cooperative di produttori di pomodori delle province di Piacenza, Parma e Reggio. Conserve Italia acquistò i marchi Valfrutta, Monjardin, fino ai più recenti Derby, Yoga e Jolly, Colombani e allo storico marchio Cirio, tanto da essere oggi una delle principali imprese europee agroalimentari. La missione per cui nasceva Conserve Italia era di valorizzare sui mercati i prodotti delle aziende socie attraverso un’azione che mettesse in comune le eccellenze di ciascuna e superasse la situazione concorrenziale esistente. Con molta attenzione alla grande distribuzione, ai marchi, alle strategie di marketing, si realizzava un forte orientamento al mercato, finalizzato al miglioramento del reddito dei produttori agricoli, fino ad allora scarsamente presenti nella fase di commercializzazione dei prodotti. I successi dei primi anni consolidarono il progetto, tanto che al Consorzio venne affidata anche la progettazione in comune degli impianti produttivi per omogeneizzare gli standard dei prodotti finiti, l’adozione e la diffusione di comuni sistemi di gestione e di assicurazione della qualità, e, infine, la gestione del credito bancario per i soci. Iniziò contemporaneamente il processo di internazionalizzazione, con la creazione a Londra, nel 1983, della Società Mediterranean Growers Ltd per la commercializzazione dei prodotti in Gran Bretagna e in Irlanda. Anche l’integrazione con le cooperative socie si è evoluta nel tempo. La svolta si concretizzò negli anni ’90, quando da consorzio di terzo grado (cioè consorzio di consorzi di imprese) che commercializzava i prodotti finiti, conferiti dalle cooperative di trasformazione associate, Conserve Italia passò a gestire direttamente gli stabilimenti e si trasformò in un consorzio di secondo grado (cioè consorzio di imprese) cui venne affidata tutta l’attività sia industriale sia commerciale. I soci del consorzio sono oggi le 49 cooperative di primo grado che conferiscono le materie prime destinate alla trasformazione industriale. Il fatturato (cfr. tab. 1) è andato aumentando, in una progressione costante e senza strappi.
In merito alle tecnologie applicate all’ortofrutta, un grande peso occupa anche la cooperazione nel campo dei surgelati. Nel 1969 nacque a Cesena, in seno a Confcooperative, il Consorzio di secondo grado Fruttadoro di Romagna costituito dalle cooperative Copa, Capor, Apora, Apa, che a metà degli anni ’70 allargava la sua attività a nuovi comparti agroalimentari, in specie quelli appena apparsi sul mercato come la surgelazione e la liofilizzazione. Nel 1978 lo sviluppo del Consorzio Fruttadoro, graduale ma continuo, rese opportuna la costituzione di Orogel come Società di produzione, di vendita e di distribuzione dei prodotti surgelati ottenuti nello stabilimento di Cesena. Nel 1995, con lo sviluppo ulteriore dell’attività e la nascita di altre società operative, il Consorzio Fruttadoro assunse il ruolo di holding di gruppo. Oggi Orogel (cfr. tab. 1) è la prima azienda italiana nei surgelati vegetali ed è la seconda azienda di marca, preceduta solamente da una multinazionale, nel mercato del sottozero. Nel settore degli ortaggi e delle erbe aromatiche Orogel è leader sul mercato nazionale.
Il movimento romagnolo che si riconosceva nella Lega si articolò in una prima fase lungo tre principali cooperative dislocate nel ravennate: la Com, Cooperativa ortofrutticoltori di Mezzano, nata nel 1956, la Cor, Cooperativa ortofrutticoltori ravennati di Lavezzola, e la Cos, Cooperativa ortofrutticoltori di Savio. All’inizio degli anni ’70, queste, unitamente alla storica Cooperativa frutticoltori di Massa Lombarda, nata nel 1922, riunivano oltre 2.000 agricoltori romagnoli; oggi, insieme ai soci Pempa sono confluiti in Terremerse. Poco distante, nel cesenate, nel 1960 nasceva la Cof, una cooperativa di ortofrutticoltori fra mezzadri e coltivatori diretti, con lo scopo di lavorare e vendere sul mercato le produzioni dei soci, dalle cui evoluzione sarebbe nata, nel 1991, Apofruit. Nel 1986 Cof, Cofa (nata nel 1962 a Forlì), Cobar nata a Gambettola, Fc, nel 1964, diedero vita ad Agrosole, una cooperativa di trasformazione cui aderirono direttamente i loro soci, e, nel 1988, lanciarono il marchio Almaverde, che avrebbe contraddistinto per anni la produzione integrata del Gruppo Apo. Nel 1991 Cof, Cobar, Cofa e Agrosole si fusero dando vita ad Apofruit, che, nel 1995, avrebbe incorporato la storica Poa, una cooperativa locale di area repubblicana, cresciuta in stretta concorrenza con la Cof. L’evoluzione successiva seguì poi la strada regionale, aggregando alcune realtà ravennati e modenesi, consolidandosi a livello nazionale. Oggi Apofruit (cfr. tab. 1) ha un’organizzazione produttiva basata su 12 stabilimenti sul territorio nazionale e 6 strutture per lo stoccaggio dei prodotti.
A partire dal dopoguerra, la strategia di crescita del settore non prese sempre strade lineari. La Lega cercò di collegare la cooperazione agricola a quella di consumo, nella logica di integrazione di filiera e di valorizzazione di produttori e consumatori. In nome di questo tentativo, sul quale la Lega periodicamente tornava (sull’onda dell’esempio europeo, tentativi analoghi erano stati fatti anche in altri comparti), furono portate avanti sperimentazioni che ebbero un avvio stentato (e che non diedero i risultati sperati), come il Cora, Consorzio ortofrutticolo ravennate, che aveva funzioni commerciali, organizzative e di assistenza, e il Conor, Consorzio ortofrutticolo bolognese, che associava cooperative agricole e di consumo. A partire dagli anni ’70, ci si orientò verso l’irrobustimento dei consorzi provinciali, che contribuirono all’innovazione tecnologica del settore, e allo sviluppo delle strategie commerciali unitarie. Accanto al bolognese Conor e al ravennate Cora, si costituì la cooperativa per la commercializzazione, Agra, che operava fra Modena e Reggio, e si condusse nel movimento l’Associazione interprovinciale produttori cocomeri ed ortofrutticoltori (Aiproco). Conor, nata nel 1964 dall’esigenza di centralizzare gli acquisti di ortofrutta, senza passare dai mercati ortofrutticoli, nel 1973 stimolò la nascita della prima cooperativa fra agricoltori del Mercato ortofrutticolo di Bologna. Fra il 1973 e il 1986 su questo modello si costituirono sei cooperative: Cobo, Quadrifoglio, Copa, Primavera, Cona e Progresso. Nel 1989 queste cooperative costituirono il consorzio Agribologna, con la sola funzione di rappresentanza, per poi assumere, nel 1998, un ruolo organizzativo, di programmazione e commercializzazione dei prodotti conferiti dai soci. Nel 2006, le cooperative si sono fuse per incorporazione nel consorzio, che è diventato cooperativa di primo grado. Oggi Agribologna associa 135 aziende agricole medio grandi (ca 20 ettari di media) distribuiti fra la provincia di Bologna, Ravenna, Rimini, Modena e fuori regione (Veneto, Lazio, Puglia), e tassi di specializzazione elevati. Nel comparto dei surgelati associata a Legacoop si muove Fruttagel, un’azienda nata nel 1994 ad opera di numerose cooperative agricole prevalentemente del territorio ravennate, per rilevare lo stabilimento di trasformazione di Alfonsine a seguito delle fortissime difficoltà in cui versava la Cooperativa Parmasole, a sua volta subentrata nel 1983 ad AlaFrutta. Nel 1996 l’assetto societario venne completato e rafforzato con l’ingresso di Coind, cooperativa industriale con sede nel bolognese che opera nel campo della distribuzione, costituendo un caso unico di integrazione fra produzione e distribuzione, che esercita la governance del Gruppo.
La cooperazione nel settore carni
La cooperazione nel settore carni, che prese una fisionomia compiuta nei tardi anni ’70, sviluppò una strategia unitaria, che vide la collaborazione delle due principali centrali cooperative, soprattutto in risposta alla crisi, prima congiunturale poi strutturale, nella quale versava il settore. In Emilia-Romagna il bestiame tradizionalmente era usato per il lavoro dei campi e per l’autoconsumo familiare (soprattutto suino ed avicolo). Con la meccanizzazione, l’apertura delle fattorie al mercato e la trasformazione dei poderi autosufficienti in aziende agricole, il bestiame divenne disponibile ad altre forme di utilizzo. All’origine, dunque, si trattava di una produzione molto frazionata, che, tendenzialmente, partecipava solo per una piccola parte alla formazione del reddito dell’agricoltore, che non aveva forza contrattuale perché non gestiva grandi quantità. Da qui la necessità di unirsi in forma cooperativa conferendo gli animali stessi o i prodotti dell’allevamento (uova o latte) per la trasformazione industriale e la commercializzazione, in modo da eliminare l’intermediazione e migliorare la redditività degli agricoltori. Negli anni ’70 sorsero anche le stalle sociali. Si trattava di imprese nelle quali il lavoro era svolto da personale salariato, mentre lo scambio mutualistico avveniva fra i soci produttori che coltivavano e conferivano alimentazione per gli animali. Questa forma di impresa, nella quale le centrali cooperative, soprattutto la Lega, credevano molto, non diedero mai, nei fatti, i risultati sperati, precipitando in una crisi senza ritorno negli anni ’80.
Funzionavano invece le stalle collocate nelle cooperative di conduzione terreni, che divennero alternative alle stalle sociali e si affermarono in modo permanente laddove investirono nella costruzione della stalla. L’esempio più calzante è quello della Cooperativa lavoratori agricoli imolesi (Clai), che nacque a Imola nel 1962 nell’alveo dell’Azione cattolica e delle Acli (di cui la sigla Clai è un anagramma). I giovani, che erano i veri promotori di questa iniziativa, avevano percepito che il mondo dell’agricoltura stava cambiando, e cercavano una realtà d’impresa che li rendesse protagonisti e non succubi della trasformazione in atto. L’attività iniziale riguardò il campo dei servizi ausiliari ed integrativi per la conduzione dei terreni e l’allevamento zootecnico tradizionale, in favore degli agricoltori associati. Venne promosso l’allevamento di galline ovaiole e sperimentato l’allevamento diretto di suini, cosa che cambiò la natura dell’impresa, ma anche il rapporto mutualistico fra i soci, compartecipi diretti dell’attività imprenditoriale. Negli anni ’70 la cooperativa si orientava con più decisione nel comparto della macellazione e trasformazione delle carni. A tal fine si dotava di un centro zootecnico che, negli anni ’80, verrà ampliato nel salumificio. Frattanto, aumentava il numero di spacci aperti come scelta strategica.
Oggi (cfr. tab. 1) la cooperativa opera sia nel settore dei salumi, con una particolare specializzazione nel segmento del salame e in quello delle carni fresche bovine e suine. Fanno parte della cooperativa 283 soci, sia allevatori che conferiscono il bestiame (relativamente alle carni suine, i soci debbono essere integrati nel circuito delle Dop del prosciutto di Parma e di San Daniele), sia soci lavoratori che svolgono la loro attività nei vari settori dell’impresa. I prodotti dell’azienda sono presenti nei canali di vendita di tutte le regioni Italiane e all’estero, soprattutto nel comparto dei salumi.
Parallelamente a questa evoluzione, nei caseifici cooperativi presero corpo progetti di integrazione di attività casearie e di allevamento di suini, che diedero vita a scrofaie consortili che si affermarono soprattutto in montagna e non in modo capillare in regione, anche per i problemi ambientali legati a questo genere di strutture e alla legislazione restrittiva.
Negli anni ’60 nel settore della macellazione e del mercato delle carni si imponeva una ristrutturazione degli impianti per consentire imprese efficienti dal punto di vista tecnico ed economico, igienico e sanitario.
In Emilia-Romagna Confcooperative e Lega lavorarono, mettendo in campo le prime forme di collaborazione, per integrare le singole cooperative a livello regionale, cercando un’intesa con gli enti locali per la realizzazione di moderni macelli pubblici, che potessero essere gestiti dalle cooperative di produttori. Questo portò, a metà del decennio, a un’intesa con il comune di Modena per la macellazione e la vendita diretta di carni gestito dai produttori, dando vita al Consorzio carni di Modena (Ccm), unitario fra Confcoopartive e Legacoop. Sempre nel modenese, il settore avicolo si avvantaggiò della costituzione del Consorzio cooperativo provinciale avicolo (Coprav), che gestiva, per conto del consorzio nazionale avicolo, un centro di raccolta, selezione, qualificazione e commercializzazione delle uova conferite dai soci.
Nel 1948, in seno a Legacoop, erano nati: Ciam, Cooperativa interprovinciale alimentari Modena, con l’obiettivo di fornire prodotti di qualità ad un prezzo accessibile anche alle fasce economicamente più deboli della popolazione, che poi si trasformò in cooperativa agricola; e, a Reggio Emilia nel 1946, Acm, Azienda cooperativa di macellazione, prima di carne bovina, poi anche suina, che associava gli allevatori, più nota con il nome del marchio Asso. Confcooperative aveva tre consorzi: il Consorzio italiano macelli, Cimaco, nato nel 1968 per coordinare i macelli a livello nazionale e offrire servizi alla zootecnia degli associati; il Consorzio avicunicolo Conav, nato a Forlì nel 1981, che associava macelli e cooperative di produttori di uova per coordinare l’attività di vendita; il Consorzio regionale zootecnico, Corezoo, nato nel 1981 e impegnatosi nel campo tecnico e sperimentale dell’alimentazione animale, operando come mangimificio. Negli anni ’80, la crisi del settore zootecnico (sia latte sia carne) divenne strutturale, le zone coinvolte nella produzione di latte, piuttosto che di carne, furono più penalizzate dalla politica di incentivi europei agli abbattimenti di capi, ma la fase di difficoltà coinvolse parimenti la cooperazione di conduzione terreni, le stalle sociali, i macelli cooperativi.
La ricerca di soluzioni alla crisi veniva ormai cercata insieme alle centrali cooperative e alle associazioni professionali agricole. Si ristrutturò la rete dei macelli, chiudendo quelli che non soddisfacevano le richieste del mercato, che si erano fatte più articolate, non indirizzandosi più solo verso la macellazione, ma anche la porzionatura. Gli esiti della crisi sarebbero stati diversi nella zootecnia da latte e da carne, che non si sarebbe più risollevata, con un epilogo negativo per le sorti delle cooperative interessate (anche per l’invecchiamento della base sociale e la cessazione dell’attività). Il punto di approdo di questo percorso sarebbe stato la concentrazione del comparto in poche strutture unitarie, in particolare in Emilia, la limitazione della cooperazione alle fasi di trasformazione e commercializzazione. L’obiettivo della ristrutturazione globale della zootecnia emiliana fu quello di arrivare ad un’aggregazione delle strutture di macellazione e lavorazione carni bovine e suine, per accrescere la loro forza sul piano della commercializzazione; ciò sarebbe stato realizzato in una logica unitaria negli anni ’90, a livello sovra-provinciale, da Confcooperative e Lega con la creazione di un polo cooperativo incentrato sulla costituzione di due consorzi interprovinciali per la macellazione di carni bovine, Italcarni, e suine, Unicarni, dove sarebbe poi confluito il Consorzio unitario Ccm. Mentre Italcarni oggi non è più attiva, Unicarni si è fusa con la cooperativa Pegognaga, dando vita a Unipeg, nel 2004, che è diventata oggi la prima azienda cooperativa nel settore delle carni bovine in Italia. Nel 2011 Unipeg ha acquisito l’azienda Castel Carni, che ha trasformato in AssoFood nel gennaio 2013, il quale ha sviluppato il settore dei porzionati di carne e degli elaborati. Parallelamente, nel 1991 le due cooperative Acm e Ciam si fusero, dando vita a Unibon, nota anche con il marchio Casa Modena, un grande Gruppo cooperativo operante nella macellazione, lavorazione, trasformazione e commercializzazione di carni, suine e bovine, e di salumi. Nel corso degli anni ’90 Unibon si è specializzata sempre di più sul core business “salumi” (producendo anche il prosciutto di Parma, Modena e San Daniele), delegando a due consorzi che raccoglievano la base sociale della cooperativa la gestione della macellazione. Nel 2000 dalla joint venture con il Gruppo Senfter è nato Grandi Salumifici Italiani (cfr. tab. 1) , a forte vocazione internazionale. Da segnalare anche la presenza del Gruppo Amadori, nella cui orbita gravitano i consorzi regionali Gesco (cfr. tab. 1), Avicoop, Consorzio produttori bionature, che aggregano le cooperative aderenti a Confcooperative vocate alla produzione avicunicola.
Conclusioni
Come dicevamo all’inizio, abbiamo voluto narrare la storia di queste imprese, seguendone i fili per farne emergere l’articolazione nel territorio in cui, come abbiamo brevemente ricostruito, storie, vicende, eventi si intrecciano, aggomitolandosi e dipanandosi fra fusioni, fallimenti, riaggregazioni, sviluppo e battute di arresto, di generazione in generazione. Ci sembra che già questo costituisca un esempio della flessibilità della formula cooperativa, di qualsiasi matrice culturale e locale, che ha permesso la convivenza, in un unico sistema, della grande dimensione e della media o piccola azienda, consentendo a tutti i produttori, grazie al fitto reticolato associativo, di rimanere protagonisti nel mercato. Ogni comparto ha caratteristiche specifiche, rispetto alle quali il modello cooperativo ha agito da stimolo, stando ai risultati in termini di fatturato riportati nella tabella 1.
Nel settore molitorio la dimensione cooperativa garantiva la possibilità di ammasso delle produzioni, e di vendita costante, bloccando processi speculativi. Il comparto dei servizi è uno dei meno interessati dell’agroalimentare alla pressione della grande distribuzione, che tanto influenza l’andamento della maggior parte dell’agroalimentare. Nella catena del valore, questo settore interviene a monte, facendosi carico della qualità delle produzioni, monitorando il rispetto dei disciplinari in merito all’utilizzo di concimi, prodotti fitosanitari, e via dicendo, a salvaguardia delle produzioni tipiche e del biologico, che, da prodotto di nicchia, è oggi diventato alimento di largo consumo. Che questa funzione faccia carico a un’impresa di produttori associati, che sarebbero i più danneggiati da un comportamento scorretto, è di per sé una garanzia anche per il consumatore. A maggior ragione, le cooperative di servizio hanno dato un contributo alla creazione di una cultura attenta alla qualità degli alimenti e alla salute dei consumatori, intervenendo sugli agricoltori con una azione di accompagnamento alla modernizzazione, con indirizzi innovativi, come quelli riguardanti la lotta integrata e biologica.
In un campo come quello saccarifero, che assorbiva tutta la produzione bieticola locale, la formula cooperativa si è dimostrata la più indicata per difendere il reddito dei produttori, perché rompeva la storica divisione fra i due ruoli: industriale e produttivo. La competizione con gruppi che in questo comparto erano (e sono) molto strutturati, però, imponeva una gestione prudente, incentrata sull’innovazione tecnologica e sul controllo di gestione, con un abbandono precoce della formula a costi e ricavi, per creare risorse finanziarie necessarie alla patrimonializzazione. Il successo, in questa particolare tipologia di impresa, stava nella capacità di elaborare strategie per incentivare il prestito sociale, motivando i soci attraverso una forte condivisione valoriale e identitaria.
Nel settore caseario, le latterie sociale, nelle quali il produttore metteva in comune non solo la lavorazione, ma anche la commercializzazione del latte, fu il modello che agì da stimolo nella trasformazione del produttore da contadino a imprenditore, perché in questo settore, che non metteva in discussione la sopravvivenza della famiglia contadina, che traeva il reddito principale dalle colture, si poteva rischiare e sperimentare cercando di conseguire maggiori guadagni.
In questo comparto, in cui il socio era direttamente coinvolto nell’andamento dell’azienda, per la prima volta si sperimentò l’utilità della forma associativa per fare crescere imprese che si collocavano fra agricoltura e industria, costituendo un modello per gli altri comparti dell’agroalimentare in fase di evoluzione: il vino e l’ortofrutta, in particolare la barbabietola (di cui abbiamo appena detto, con tutta la complessità del caso) e il pomodoro.
La nascita delle cooperative di raccolta latte, poi dell’azienda di trasformazione e commercializzazione ampliò enormemente il ruolo dei produttori, diminuendo il numero delle transazioni commerciali e consentendogli la difesa del reddito attraverso lo stimolo alla modernizzazione dell’impresa, che avvenne grazie all’assistenza zootecnica costantemente svolta dai tecnici cooperativi, o alla formazione quotidiana per perfezionare i parametri qualitativi del latte, contribuendo a creare una cultura che inquadra le produzioni animali come alimenti.
Il settore vinicolo, oltre alle problematiche comuni agli altri settori, è particolarmente sensibile alle fluttuazioni dei mercati internazionali, che hanno obbligato gli agricoltori a puntare su un prodotto ad alto contenuto tecnologico. Anche in questo contesto, il ruolo svolto dal complesso di associazioni e consorzi rese l’Emilia-Romagna una delle regioni europee più dinamiche nel comparto, con una forte propensione all’innovazione di prodotto e di processo, sotto la pressione delle trasformazioni della distribuzione.
Il comparto carni, che conclude il quadro sintetico sui settori, è un esempio ancora diverso, rispetto agli altri, della capacità del modello cooperativo di adattarsi a situazioni eterogenee con percorsi originali e specifici in un preciso contesto, territorio, compagine sociale. Il punto fermo che accomuna le imprese anche di questo settore è, ancora oggi, garantire un reddito adeguato alla base sociale, rendendola protagonista dell’impresa, in un contesto democratico che valorizzi la sostenibilità.
Quelli delineati sopra sono alcuni esempi della vitalità che assunse la cooperazione nei vari settori dell’agroalimentare, rendendo gli agricoltori-imprenditori parte attiva nel governo di un’importante fetta della catena del valore generato dal proprio lavoro, permettendo al singolo, anche piccolo o medio produttore, di non stare nel mercato in una posizione di subalternità, ma con un protagonismo sancito dai processi partecipativi propri del modello cooperativo, attraverso strumenti di governance nei confronti dei quali i gruppi dirigenti hanno mostrato sempre grande attenzione. Una sorta di via emiliano-romagnola alla modernità, nella quale anche i soggetti dell’economia primaria hanno trovato una modalità di accesso e una giusta collocazione.
1 Per ulteriori approfondimenti, si rimanda al mio volume La cooperazione agroalimentare in Emilia-Romagna: una storia di successo, un futuro di sfide (ed. inglese: Agri-Food Cooperation in Emilia-Romagna: a success story, a future of challanges), Bologna, Regione Emilia-Romagna, 2015 (entrambe le versioni sono scaricabili on line).