Sviluppo urbano, pianificazione e governo del territorio negli anni della grande trasformazione: la frana di Agrigento

Abstract

L’articolo prende in esame il dibattito pubblico apertosi in Italia sui temi dello sviluppo urbano, della pianificazione e del governo del territorio sulla scia del grave evento franoso verificatosi ad Agrigento il 19 luglio 1966, che vide crollare un’estesa porzione della città di recente edificazione. Ci si concentra sul confronto tra le forze politiche in merito alle responsabilità del disastro; sull’indagine ministeriale disposta per accertarne le cause, che rivelò una molteplicità di abusi e una diffusa illegalità in campo urbanistico ed edilizio; e sulla legislazione varata negli anni seguenti per meglio disciplinare le modalità della crescita urbana e scongiurare il ripetersi di eventi analoghi. Assurgendo ad emblema del disordine urbanistico-edilizio del Paese negli anni della grande espansione urbana, la frana di Agrigento spinse all’adozione di importanti, seppur controversi, provvedimenti di riforma come la “legge-ponte” e il decreto sugli standard urbanistici.

Abstract english

Urban growth, planning and land governance in the years of the “great transformation”: the Agrigento landslide

This article examines the public debate that took place in Italy on issues of urban growth, planning and land governance in the wake of the serious landslide that occurred in Agrigento 19 July 1966, when a vast portion of the newly-built city collapsed. It focuses on the confrontation between the main political parties about responsibility for the disaster; on the ministerial survey that was carried out to investigate its causes, which revealed a large number of abuses and widespread illegality in the field of planning and building; and on the legislation that was passed in the following years in order to better regulate urban growth and prevent the recurrence of similar events. Becoming an emblem of urban disorder at national level in the years of the great urban expansion, the Agrigento landslide pushed to the adoption of important, albeit controversial, reform measures such as the so-called “bridge law” and the decree on planning standards.

 

di Bruno Bonomo

La popolazione di Agrigento ha vissuto oggi una giornata estremamente drammatica. Nelle prime ore del mattino, un gigantesco movimento franoso ha smosso il terreno sul quale poggiano cinque quartieri a meridione del centro cittadino, verso Porto Empedocle e il mare. Tre edifici in costruzione sono crollati, una ventina di case sono pericolanti e molti altri stabili potranno essere coinvolti nel disastro se l’immane slittamento dell’altura su cui sorge la zona devastata proseguirà nei prossimi giorni e diverrà più rapido. Secondo le notizie di stasera, circa cinquemila persone hanno dovuto abbandonare le loro case e cercare una sistemazione di fortuna.2

Così Mario Cervi, inviato speciale ad Agrigento, raccontava sulla prima pagina del “Corriere della Sera” la frana avvenuta nella città dei templi il 19 luglio 1966. Fortunatamente non si erano registrati morti né feriti, solo “qualche malore per collasso”, poiché al momento dello smottamento – pochi minuti dopo le sette di mattina – non vi erano operai negli edifici in costruzione e gli abitanti degli stabili vicini, allertati da “una sorta di sordo brontolio, come un ronzare cupo, accompagnato da scoppiettanti, laceranti scricchiolii” che annunciavano l’imminente cedimento del terreno, si erano precipitati fuori casa mettendosi in salvo. Nell’articolo erano riportate le prime dichiarazioni degli esperti, che spiegavano come lo smottamento fosse dovuto a un distacco tra i due strati del terreno collinare su cui sorgeva l’abitato agrigentino: il sottile strato tufo-calcareo superiore, su cui poggiavano le costruzioni, e lo strato argilloso sottostante, poco stabile sia in ragione della pendenza del terreno sia per le infiltrazioni d’acqua dallo strato superiore. L’accaduto, proseguiva il cronista, induceva a “formulare un interrogativo inquietante”:

lo sfruttamento edilizio intenso di quel terreno e le modalità con le quali si costruiva rispondevano alle esigenze di sicurezza e di stabilità? Furono compiute le doverose ispezioni geologiche? Chi ha la garanzia che in altre parti della città, che attualmente paiono al riparo dei danni, non si verifichi qualcosa di simile? Le autorità, che provvedono attualmente ai soccorsi alla città così gravemente colpita, dovranno certamente occuparsi anche di questo aspetto del problema.3

Cervi metteva così a fuoco alcune delle questioni con cui nelle settimane e nei mesi seguenti si sarebbero effettivamente misurate le autorità, e intorno alle quali si sarebbe aperto un ampio e animato dibattito pubblico che vide coinvolte le forze politiche, i saperi esperti, la stampa, gli enti locali e le amministrazioni centrali e periferiche dello Stato. L’evento, per quanto incruento, si impose infatti con forza all’attenzione dell’opinione pubblica e della classe dirigente, acquisendo sin da subito una rilevanza nazionale. Nei giorni successivi, mentre si procedeva alla stima dei danni e si iniziavano a demolire gli edifici pericolanti,4 si recarono in visita ad Agrigento il ministro dei Lavori pubblici Mancini e poi il presidente del Consiglio Moro e il presidente della Repubblica Saragat, che portarono solidarietà e conforto alle popolazioni colpite e assicurarono il sollecito intervento dello Stato per provvedere alle necessità di quanti avevano perso la casa o il lavoro per effetto della frana.5

[Fig. 1 - Particolare della zona franata a valle di via Dante. Fonte: “Urbanistica”, 1966, 48.]

[Fig. 1 – Particolare della zona franata a valle di via Dante. Fonte: “Urbanistica”, 1966, 48.]

Il Consiglio dei ministri nella seduta del 29-30 luglio approvò un decreto-legge contenente i provvedimenti urgenti per la gestione dell’emergenza, il ripristino delle strutture danneggiate e la sistemazione di quanti erano rimasti senza tetto.6 Il 4 agosto il decreto fu portato alla Camera per la conversione in legge: la relazione di accompagnamento riferiva che la frana aveva interessato un’area di circa 200.000 mq facendo sprofondare varie strade, causando il crollo di quattro edifici, di cui due in costruzione, arrecando a “un rilevante numero di fabbricati” lesioni talmente gravi da imporne l’abbattimento e lasciando senza casa 7.541 persone, quasi un quinto della popolazione della città.7 Nella discussione in Aula il ministro Mancini, dopo aver assicurato che si stava facendo tutto il possibile affinché il disagio dei cittadini fosse ridotto al minimo e si ristabilissero presto normali condizioni di vita, evidenziò “la ferma decisione”, sua personale e del Governo, “di individuare in modo rapido e sotto il controllo dell’opinione pubblica le cause che hanno determinato l’angosciosa situazione”. A tal fine, spiegò, aveva nominato due commissioni: una per gli accertamenti tecnici, presieduta dall’ingegner Giorgio Grappelli, presidente di sezione del Consiglio superiore dei lavori pubblici e neo-provveditore alle opere pubbliche per la Sicilia; l’altra, guidata dal direttore generale dell’Urbanistica al Ministero dei lavori pubblici Michele Martuscelli, incaricata di condurre un’indagine sul versante urbanistico-edilizio, sul quale – sottolineava Mancini – erano immediatamente emersi “fatti gravi, allarmanti, mostruosi […] che, purtroppo, stanno a dimostrare che in questo campo ad Agrigento nessuna legge è esistita o è stata osservata e che la sola legge è stato l’arbitrio”.8

Dopo il ministro prese la parola il deputato comunista Mario Alicata, direttore dell’“Unità”, uno degli animatori principali del dibattito sui fatti di Agrigento.9 Egli sostenne che era necessario approfondire la questione delle responsabilità dell’accaduto. Basandosi su un’indagine condotta due anni prima dal viceprefetto Nicola Di Paola insieme al maggiore dei Carabinieri Rosario Barbagallo, che aveva rivelato una serie di abusi e gravi irregolarità nel settore urbanistico-edilizio, Alicata affermò che “ad Agrigento si è vissuto per anni nella illegalità; una banda di fuorilegge ha retto contro la legge la vita della città”, aggiungendo che dietro questa illegalità diffusa “c’era la mafia, onorevoli colleghi; e c’era il connubio […] tra la mafia e parte della classe politica agrigentina”.10 Oltre all’amministrazione comunale, saldamente guidata dalla Democrazia Cristiana, Alicata chiamava in causa il governo regionale, anch’esso a guida scudocrociata, e le autorità statali, rei di non essersi attivati per contrastare questo stato di cose. Infine, allargava il discorso in una prospettiva più ampia:

E non si tratta di Agrigento soltanto, onorevoli colleghi. Forse che a Trapani, a Palermo, a Catania – per restare alla Sicilia – non siamo di fronte ad episodi dello stesso genere? Forse che al di là della Sicilia, in altre forme, in altre maniere, la speculazione edilizia, con la connivenza delle amministrazioni comunali, dei poteri pubblici, con la omertà degli organi governativi, non è diventata uno dei bubboni cancrenosi della società italiana? […] E allora, perché non si è fatto niente nel senso di impedire lo scempio delle nostre città, cui hanno collaborato tanti amministratori e tanta parte della burocrazia dello Stato? Perché non si è fatto niente sul terreno della legislazione per creare le condizioni per bloccare la possibilità di questi fatti?11

Seguirono gli interventi di vari deputati. Il socialista Natale Di Piazza da un lato indicò come “coimputato principale” del disastro “il caos edilizio” degli anni passati, determinato dal prevalere su ogni norma della “brama sfrenata di facili guadagni che ha assalito i costruttori, in ciò aiutati dai pubblici poteri locali, i quali avrebbero avuto invece il dovere di far rispettare la legge”; dall’altro, elogiò il governo e in particolare il ministro Mancini per aver fronteggiato efficacemente l’emergenza soccorrendo la popolazione colpita e provvedendo alle sue necessità immediate, e per aver dimostrato di voler appurare tutte le responsabilità dell’accaduto: “La costituzione della commissione d’inchiesta […] è la prova che si vuole andare con celerità e decisione fino in fondo”.12

Vito Raia, del PSIUP, rilanciò con ancor più vigore le accuse alla Democrazia Cristiana e allo stesso esecutivo già mosse da Alicata:

Si deve accertare sia le responsabilità amministrative e penali, sia quelle politiche, che devono essere addebitate alla classe dirigente e al sistema. […] si deve indagare e scoprire tutti gli illeciti, perseguendo coloro i quali hanno compiuto, permesso o favorito la già sfrenata e criminale speculazione sulle aree fabbricabili. […] Riaprire il capitolo delle responsabilità è necessario, per colpire una cancrenosa frana morale e politica di proporzioni assai più vaste di quella che si è aperta nel sottosuolo di Agrigento. In questi giorni la Democrazia cristiana […] sta facendo muro per difendere i responsabili, fa come lo struzzo che non vuole vedere la realtà, vuole impedire che il paese sappia, e cerca anzi di dipingerci come speculatori politici. La verità è […] che tutti sapevano: la catena delle responsabilità va dall’amministrazione comunale agli uffici statali, ed anche ai ministri.13

Più cauto circa le cause della frana si mostrava invece il deputato missino Angelo Nicosia, il quale sostenne che esse “non possono essere facilmente accertate” e che “certamente vi sono anche cause naturali”, pur concedendo che “se non la causa principale del disastro, certo una concausa deve essere considerato il disordine edilizio di Agrigento”. Oltre a prendersela con lo scarso sentimento patriottico della stampa, rea di non aver “sufficientemente valutato” un evento così drammatico rivelandosimolto più sensibile in circostanze meno gravi per il nostro paese, come ad esempio è accaduto per la fame in India”, Nicosia puntava il dito contro il regime autonomistico siciliano, accusando la politica urbanistica della Regione di aver prodotto “con un allentamento di ogni chiaro vincolo legislativo […] tutto il pandemonio edilizio di Palermo, Catania, Messina, Agrigento, Trapani, Caltanissetta, Ragusa e Siracusa”.14

Altrettanto prudente in merito alle cause della frana, e in particolare al ruolo dei fattori antropici, il democristiano Giuseppe Sinesio, secondo cui essa “indubbiamente non deriva semplicemente dalla volontà degli uomini ma anche dall’ambiente nel quale essi operano”. In altre parole, non si poteva affermare che il disastro fosse dovuto “solo allo schiacciamento del peso delle nuove costruzioni” erette sulla collina di Agrigento, poiché “di cause ve ne sono tante”. Sinesio riferiva di aver letto proprio il giorno prima un articolo sugli studi di un archeologo di fine Ottocento, Julius Schubring, che spiegava come nell’antica Akragas l’acqua venisse raccolta attraverso dei canali sotterranei tuttora esistenti: “Per cui – argomentava il deputato scudocrociato, nonché sindaco della vicina Porto Empedocle –, come la pubblicazione di questo archeologo tedesco conferma, si trova sotto Agrigento un enorme reticolo di canali dove scorreva e scorre ancora acqua. Sarà stata questa una causa? Io non affermo che questa è la causa maggiore. Tutte le cause saranno accertate dalla commissione, nominata dal ministro”.15

Sinesio inoltre respingeva con sdegno le accuse di omertà nei confronti dell’operato della pubblica amministrazione rivolte al suo partito ed esprimeva il proprio disappunto verso quanti – con evidente riferimento alla sinistra di opposizione – cercavano di far apparire il Parlamento “come artificiosamente diviso in due gruppi: quello di coloro che vogliono colpire le responsabilità e quello di coloro che vogliono occultarle”. In realtà, sosteneva: “Responsabili siamo tutti qui dentro”, sia per “non aver approntato una legislazione con cui far fronte a calamità del genere, sempre possibili”, sia per “non aver ancora dato una sistemazione alla legislazione urbanistica” adeguandola alla “realtà della moderna vita civile”. Poi, incalzato da Alicata, tornava a puntare l’obiettivo su Agrigento, spiegando che la responsabilità era

un po’ di tutti, direi. Perché […] non ci troviamo dinanzi alla grande impresa immobiliare e di speculazione, ma […] a piccoli appaltatori, che il più delle volte sono dei lavoratori che si sono trasformati – senza perizia e competenza – in appaltatori. […] piccoli appaltatori di tutti i partiti che hanno costruito spesso tra le pieghe della legge!16

Il dibattito sulle cause della frana (riconducibili a fattori naturali oppure all’intervento umano, in particolare all’attività edilizia), sulle responsabilità (di natura meramente amministrativa o anche politica; confinate a livello locale o più estese; generalizzate, quindi in sostanza sfuggenti, o ben individuabili e dunque perseguibili), nonché sulle implicazioni del disastro proseguì nei mesi seguenti tanto nei due rami del Parlamento quanto nell’Assemblea regionale siciliana, dove a indossare le vesti di principale accusatore del potere democristiano fu il deputato comunista Pio La Torre.17

Nel frattempo, alcuni punti fermi vennero fissati dalla commissione Martuscelli, che l’8 ottobre consegnò al ministro Mancini una lunga e dettagliata relazione sulla situazione urbanistico-edilizia di Agrigento. La relazione ricostruiva lo sviluppo della città a partire dalla fine della guerra, rilevando una serie di aspetti fortemente problematici. In primis, si era costruito molto ma male. Il patrimonio edilizio era cresciuto ben più della popolazione (tra il 1951 e il 1965 gli aumenti registrati erano stati rispettivamente del 118% e del 20%), ma ciò non aveva risolto i problemi abitativi a causa di un’evidente “distorsione fra domanda e offerta sul mercato edilizio”, poiché gli alloggi costruiti non rispondevano alle esigenze delle fasce sociali che avevano maggiormente bisogno di casa, ossia le famiglie a basso reddito che vivevano in condizioni di sovraffollamento. I costruttori, inoltre, avevano sfruttato al massimo le aree disponibili e avevano creato i presupposti per il successivo smottamento “intaccando le falde della rupe singolarmente, con opere inadeguate di consolidamento, senza provvedere alla regolazione del deflusso delle acque di superficie, oltre che degli scarichi delle acque luride, senza preoccuparsi di sistemare il terreno sconvolto dalle opere”.18

[Fig. 2 - Sviluppo edilizio di Agrigento tra il 1958 e il luglio 1966. Fonte: Commissione di indagine sulla situazione urbanistico-edilizia di Agrigento, Relazione al Ministro, on. Giacomo Mancini, Ministero dei Lavori pubblici, Roma, 1966.]

[Fig. 2 – Sviluppo edilizio di Agrigento tra il 1958 e il luglio 1966. Fonte: Commissione di indagine sulla situazione urbanistico-edilizia di Agrigento, Relazione al Ministro, on. Giacomo Mancini, Ministero dei Lavori pubblici, Roma, 1966.]

Dall’indagine emergeva “uno stato diffuso e generalizzato di illegalità”,19 che risultava imputabile principalmente all’amministrazione comunale, sebbene venissero mossi rilievi anche agli organi regionali e statali per non aver esercitato un’efficace azione di controllo e tutela nei settori di loro competenza. Nonostante vi fosse tenuto ai sensi della legge urbanistica, il Comune non si era dotato di un piano regolatore. L’esame delle licenze edilizie rilasciate ai costruttori rivelava poi la sistematica inosservanza delle prescrizioni del regolamento edilizio e del programma di fabbricazione, soprattutto in materia di altezza massima degli edifici e distacchi minimi tra un fabbricato e l’altro, di costruzioni o sopraelevazioni nel centro storico, di edificazioni residenziali in zone destinate a verde o ad attività agricole o industriali:

La frequenza, la molteplicità e la gravità delle violazioni poste in essere induce a ritenere che gli amministratori partissero dall’effettivo convincimento che il regolamento fosse un documento puramente formale, di facciata o di comodo, e che essi invece disponessero di un potere, più che discrezionale, libero da esercitare caso per caso nel modo ritenuto più opportuno.20

Come se ciò non bastasse, si contavano numerosi edifici totalmente o parzialmente abusivi, cioè costruiti senza licenza o in contrasto con quanto da essa previsto. Riguardo a questa seconda fattispecie, si notava che “così ferma e così generalizzata” era la convinzione dei costruttori che le opere non a norma sarebbero state tollerate e poi sanate, che essi “pur ottenendo una prima licenza per un’altezza limitata, realizzavano le fondazioni calcolandole per un notevole numero di piani, che poi riuscivano a costruire in base ad ulteriori licenze comunali in deroga o in sanatoria”.21 Alla luce di tutto ciò, può non stupire che, nel proporre una stima dei vani realizzati in contrasto con la normativa tra il 1955 e il 1965, la commissione indicasse la cifra di 8.500 sui 20.000 totali, specificando che si trattava di “una cautelativa valutazione per difetto”.22

[Fig. 3 - Casi tipici d’infrazione in materia edilizia (in colore i volumi irregolari). Fonte: Commissione di indagine sulla situazione urbanistico-edilizia di Agrigento, Relazione al Ministro, on. Giacomo Mancini, Ministero dei Lavori pubblici, Roma, 1966.]

[Fig. 3 – Casi tipici d’infrazione in materia edilizia (in colore i volumi irregolari). Fonte: Commissione di indagine sulla situazione urbanistico-edilizia di Agrigento, Relazione al Ministro, on. Giacomo Mancini, Ministero dei Lavori pubblici, Roma, 1966.]

Nella lettera con cui i membri della commissione trasmettevano la relazione al ministro, Agrigento era presentata come caso-limite ma al tempo stesso come una sorta di emblema del degrado urbanistico-edilizio dell’intero Paese:

La gravità dei fatti rilevati pone senza dubbio la situazione di Agrigento al limite delle possibili combinazioni negative dei molteplici fattori che concorrono alla formazione di una città, alla sua crescita ed alla sua guida. […] Ma la Commissione, nel rimettere gli atti, sente il dovere di segnalare […] la gravità della situazione urbanistico-edilizia del paese, che ha trovato in Agrigento la sua espressione limite. E non può, nel concludere, non auspicare che da questa analisi concreta parta un serio stimolo nel porre un arresto – deciso ed irreversibile – al processo di disgregazione e di saccheggio urbanistico. Il problema non può, ovviamente, essere risolto che con una nuova legge urbanistica – la cui emanazione non dovrebbe essere ulteriormente rinviata –; ma in attesa che tale legge entri in vigore e dispieghi i suoi effetti positivi e rinnovatori, appare indispensabile ed urgente l’adozione […] di alcune essenziali ed incisive norme di immediata operatività, atte ad affrettare la formazione dei piani, ad eliminare nei piani e nei regolamenti le più gravi storture relative ad indici aberranti e a troppo estese facoltà di deroga e ad impedire i più vistosi fenomeni di evasione e di speculazione. Se, da un serio esame della situazione urbanistico-edilizia di Agrigento potranno emergere, con l’ampliamento dell’orizzonte e con una precisa volontà operativa, atti concreti di progresso urbanistico, la frana di Agrigento non sarà soltanto ricordata come un evento calamitoso, che ha posto in luce gravi situazioni patologiche locali, ma potrà aprire un nuovo capitolo nella storia urbanistica dell’intero paese.23

La relazione Martuscelli fu accolta con favore da più parti. Essa suscitò ad esempio vivo apprezzamento sia nella stampa progressista che tra gli urbanisti. “L’Espresso” le dedicò la prima pagina, affidando alla penna di Lino Jannuzzi un commento entusiastico a quello che era salutato come un documento esemplare di portata epocale:

Una relazione burocraticamente impeccabile, metodica, analitica, documentata, distaccata e spietata. Due fascicoli, tenuti insieme con un filo di spago, che non saranno dimenticati facilmente, e saranno cercati, compulsati e citati dagli storici della Repubblica, come si cita un documento raro, forse unico nel suo genere, senza precedenti, comunque, in questi ultimi venti anni. La storia di una città, del popolo che l’ha abitata e l’ha amministrata, la denuncia ufficiale, pubblica, della corruzione e della degenerazione del sistema; ma anche un esame di coscienza, esercitato severamente, coraggiosamente, sopra se stessi, con un valore educativo e pratico che va ben oltre i fatti di Agrigento.24

La rivista dell’Istituto nazionale di urbanistica pubblicò la relazione in un numero interamente dedicato alla frana di Agrigento e alle alluvioni che colpirono Firenze, Venezia e il Veneto nel novembre dello stesso 1966.25 L’editoriale del direttore Giovanni Astengo, che aveva fatto parte della commissione Martuscelli, evidenziava “la stretta connessione fra le carenze di pianificazione ed i recenti dissesti territoriali”, che erano conseguenza del

cattivo uso del suolo, sotto forma sia di continuativo ed insensato disfacimento di antichi equilibrati ecosistemi naturali, sia di violento e pervicace sfruttamento intensivo del suolo a scopi edificatori. In entrambi i casi, la natura, irragionevolmente sfidata, ha scatenato d’improvviso le sue furie terribili ed ammonitrici. In entrambi i casi, alla radice è l’imprevidenza umana. E se, nell’imminenza del repentino maturare della tragedia, è mancata anche la più rudimentale forma di preavviso organizzato, alle origini giganteggia una ben più ampia e continuativa imprevidenza, che si concreta nel mancato uso razionale degli strumenti della pianificazione territoriale ed urbanistica.

Astengo richiamava dunque la necessità di agire tempestivamente: bisognava varare una nuova legge urbanistica, anche sulla base di documentate indagini sui “mali urbanistici” come appunto la relazione Martuscelli; redigere i piani per le città e i territori che ne erano sprovvisti, e rivedere quelli che si erano rivelati inadeguati; modificare la disciplina degli esoneri dall’esproprio; creare un ministero per la pianificazione urbanistica e istituire le regioni, poiché il livello regionale della pianificazione era l’unico “capace di sostanziare la programmazione economica”.26

Valutazioni tutt’altro che unanimi sulla relazione Martuscelli, e più in generale sulla linea da tenere rispetto alle vicende agrigentine, emersero invece in seno al Governo, che tornò a discuterne il 26 ottobre. Pochi giorni prima, Mancini aveva inviato a Moro una missiva con l’elenco dei provvedimenti che avrebbero dovuto essere “senza indugio adottati o predisposti” in base agli accertamenti della commissione d’indagine.27 Tra gli interventi proposti “come repressione e punizione degli abusi già commessi e come mezzo per impedire abusi nuovi”, vi erano l’invio della relazione all’autorità giudiziaria affinché procedesse nei casi in cui erano configurabili reati; l’avvio di procedimenti disciplinari o la sospensione dal servizio per i dipendenti pubblici cui fossero addebitabili illeciti o irregolarità; la sospensione o cancellazione dagli albi degli appaltatori di opere pubbliche per i costruttori che avessero violato leggi o regolamenti; l’esclusione da incarichi pubblici per i professionisti che avessero progettato o diretto i lavori di edifici non a norma; il riesame delle licenze edilizie per i fabbricati di cui non fosse iniziata la costruzione; la sospensione dei lavori per le costruzioni abusive in corso, con demolizione delle parti realizzate; l’abbattimento degli edifici già ultimati in presenza di “violazioni particolarmente gravi”; l’annullamento delle previsioni edificatorie nella zona interessata dalla frana e nelle sue adiacenze; il divieto di costruire nel centro cittadino fino alla redazione dei piani particolareggiati di esecuzione del nuovo piano regolatore. Oltre a questi provvedimenti di carattere amministrativo, il ministro raccomandava una serie di interventi legislativi come l’inasprimento delle sanzioni per quanti costruissero abusivamente o infrangessero le norme in materia urbanistico-edilizia; lo snellimento delle procedure di approvazione dei piani regolatori e l’intervento sostitutivo dello Stato ove i Comuni risultassero inadempienti; la limitazione della facoltà di deroga ai regolamenti edilizi e ai programmi di fabbricazione ai soli casi in cui sussistesse un interesse pubblico; la fissazione di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati.28

Nella discussione che si aprì in Consiglio dei ministri, gli esponenti socialisti appoggiarono con convinzione le proposte di Mancini, le quali – argomentò il ministro del Bilancio Pieraccini – “rispondono pienamente alle esigenze dell’opinione pubblica, e sono inoltre una idonea premessa per la riforma urbanistica”.29 Diverso l’atteggiamento dei ministri democristiani, che si mostrarono ben più cauti, se non perplessi, riguardo alla linea dettata dal titolare dei Lavori pubblici. Nonostante l’Ufficio studi e legislazione della Presidenza del Consiglio avesse dato una valutazione sostanzialmente positiva dei provvedimenti proposti da Mancini,30 Moro manifestò “alcune preoccupazioni in merito […] per i riflessi nei confronti degli Enti locali e della Regione in particolare e per la prevista revoca o sospensione delle licenze di appalto che potrebbe arrestare la vita economica di una città depressa come Agrigento”.31 Andreotti, pur concordando sul fatto che il Governo dovesse “manifestare una linea di severità”, espresse “le sue riserve sul modo di presentazione” e pose la questione se quanto avvenuto nella città dei templi fosse “occasionale ed anomalo o non […] piuttosto manifestazione di un andamento di carattere più generale”. Scalfaro raccomandò di assicurarsi che le sanzioni proposte fossero già previste da norme di legge e, sulla scia del presidente del Consiglio, evidenziò “la sua preoccupazione circa i rapporti Stato-Regione”. Gui mise a fuoco “alcuni aspetti della relazione” Martuscelli che ne “sconsigli[avano] il pieno accoglimento”, prima di soffermarsi anch’egli, per i settori di sua competenza, “sull’aspetto delicato del rapporto fra Stato e Regione”. Colombo invitò Mancini a “mantenere, del che non ha del resto dubbi, la maggiore obbiettività” nelle dichiarazioni che avrebbe fatto in Parlamento, “per creare quella necessaria serenità nelle forze politiche della maggioranza”. Analogamente, Taviani esortò il ministro dei Lavori pubblici ad “attenersi alla maggiore obbiettività nella sua esposizione”. Moro, infine, dopo essersi unito a questi appelli dei titolari del Tesoro e dell’Interno, concluse la discussione invitando, “per quanto si riferisce ai provvedimenti di competenza degli Enti locali, [a] usare termini che lascino libere le autonomie locali” e raccomandando “di usare la massima discrezione” per le demolizioni e gli altri interventi sanzionatori.32 Gli esponenti scudocrociati, insomma, invitavano Mancini alla moderazione e si mostravano riluttanti a intervenire in modi che ai loro occhi apparivano troppo energici: considerazioni di carattere politico-istituzionale, in particolare riguardo ai rapporti tra Governo nazionale e Regione siciliana, insieme al timore che la stasi edilizia peggiorasse ulteriormente le già difficili condizioni economico-sociali di Agrigento li inducevano ad assumere un atteggiamento prudente e misurato.

Comunque, l’auspicio formulato dalla commissione Martuscelli nella lettera al ministro dei Lavori pubblici citata sopra fu accolto da quest’ultimo, che il 20 dicembre presentò alla Camera un disegno di legge volto a introdurre – in attesa che si varasse una riforma complessiva in materia – una serie di norme “intese a porre un freno all’attuale situazione di disordine urbanistico-edilizio, al fine di impedire il suo ulteriore deterioramento e di predisporre le condizioni favorevoli all’applicazione della nuova disciplina”.33 Si incentivava dunque la formazione degli strumenti urbanistici (piani regolatori e programmi di fabbricazione), vietando le lottizzazioni di terreni a scopo edificatorio prima della loro approvazione e fissando misure massime dei volumi, delle altezze e dei distacchi tra gli edifici nei Comuni che ne erano sprovvisti. Si imponeva ai proprietari di cedere gratuitamente le aree per le opere di urbanizzazione e di assumere in proprio le spese per la loro realizzazione. Si contrastava l’abusivismo rafforzando i controlli, snellendo le procedure per la sospensione dei lavori e la demolizione di quanto illegittimamente costruito, e introducendo sanzioni più severe per i responsabili. Si permetteva alle autorità comunali di concedere deroghe al regolamento edilizio solo in presenza di “accertate esigenze di interesse pubblico”.34 Si prevedeva infine di limitare lo sfruttamento del suolo stabilendo rapporti massimi tra le aree destinate all’edificazione e quelle da riservare all’uso pubblico e ai servizi collettivi.

Quello stesso giorno, però, Agrigento fu teatro di una manifestazione di segno nettamente opposto, organizzata da un comitato nato da poche settimane che si proponeva di risollevare le sorti economiche della città e del quale facevano parte molti impresari indicati dalla relazione Martuscelli quali responsabili degli abusi e delle irregolarità edilizie degli anni precedenti. Per quasi dodici ore, circa diecimila persone protestarono davanti alle sedi delle istituzioni, con autocarri, bulldozer e altri veicoli collocati in punti strategici per impedire l’afflusso dei mezzi delle forze di polizia chiamati in soccorso dai responsabili locali dell’ordine pubblico. Si registrarono scontri con feriti sia tra i dimostranti che tra le fila di polizia e carabinieri. Alcuni manifestanti penetrarono negli uffici del Genio civile, trafugando e dando fuoco ai documenti relativi alle zone interessate dalla frana.35 Poi la folla si radunò sotto il palazzo della Prefettura, che fu fatto oggetto di una sassaiola, finché da una finestra si affacciò il sindaco Antonino Marsala, entrato in carica da pochi giorni, il quale si impegnò a revocare, come primo atto di governo, le ordinanze di sospensione dei lavori edili disposte dal ministro Mancini. Le radici dei disordini, riferiva la stampa, affondavano nell’esasperazione dovuta alla grave crisi che la città stava attraversando a causa del blocco dell’attività edilizia, che non aveva solo fatto perdere il lavoro a molti operai ma aveva provocato ripercussioni in tutti i settori, tanto che “in prima linea tra i manifestanti” si videro “medici, ingegneri, avvocati, commercianti”.36 La protesta, che aveva l’obiettivo di contrastare le misure restrittive adottate dopo la frana secondo le risultanze dell’indagine della commissione Martuscelli, era alimentata dai costruttori e appoggiata dai maggiori esponenti locali della Democrazia Cristiana, che accusarono i partiti di sinistra di voler ridurre la popolazione agrigentina allo stremo per meri intenti di speculazione politica.37

Non vi è qui modo di ripercorrere l’iter che portò all’approvazione, nell’estate dell’anno seguente, del disegno di legge presentato da Mancini.38 Il provvedimento fu detto “legge-ponte” in quanto doveva rappresentare una sorta di preludio a una generale riforma urbanistica, che però non vide mai la luce. Inoltre, con un emendamento parlamentare presentato dai liberali, fu stabilito di rinviare al 1° settembre 1968 l’entrata in vigore di una serie di misure restrittive. Un anno di moratoria durante il quale, come acclarato da un’indagine ministeriale, si registrò “un progressivo ed enorme aumento del numero delle richieste di licenza edilizia”, dettato “quasi esclusivamente dal desiderio dei costruttori e dei proprietari di aree […] di sfuggire alle limitazioni stabilite dalla legge”.39 Nel frattempo, comunque, con un decreto ministeriale dell’aprile 1968 emanato in attuazione della legge-ponte, vennero fissati i limiti di densità edilizia, di altezza e distanza tra i fabbricati, nonché gli standard urbanistici, ossia le quantità minime di spazio da riservare ai servizi, al verde pubblico e alle attività collettive per ciascun abitante.40

[Fig. 4 - Veduta di Agrigento verso la Valle dei templi. Fonte: Commissione di indagine sulla situazione urbanistico-edilizia di Agrigento, Relazione al Ministro, on. Giacomo Mancini, Ministero dei Lavori pubblici, Roma, 1966.]

[Fig. 4 – Veduta di Agrigento verso la Valle dei templi. Fonte: Commissione di indagine sulla situazione urbanistico-edilizia di Agrigento, Relazione al Ministro, on. Giacomo Mancini, Ministero dei Lavori pubblici, Roma, 1966.]

In conclusione, come tutti i fenomeni di dissesto idrogeologico, la frana di Agrigento fu il prodotto di una combinazione di fattori naturali e antropici: ma certo questi ultimi ebbero un ruolo decisivo nel causare il disastro. Esso avvenne in una delle città più povere d’Italia, dove negli anni precedenti si era costruito molto, con scarso rispetto delle regole e senza tenere nel dovuto conto la conformazione geologica del terreno, che rendeva la collina su cui sorgeva l’abitato un’area fragile e fortemente esposta al rischio di fenomeni franosi.41 Una città che avrebbe poi portato a lungo i segni dell’accaduto tanto a livello urbanistico quanto sociale. Superata la fase dell’emergenza si aprirono infatti i problemi legati alla ricostruzione, tra cui il fatto che non tutte le famiglie rimaste senza tetto ottennero l’assegnazione di un alloggio nel nuovo quartiere di Villaseta o la prevista indennità.42

La frana cadeva esattamente nel mezzo di un trentennio (1951-1980) nel corso del quale la superficie urbanizzata in Italia crebbe enormemente, secondo alcune stime risultando addirittura raddoppiata (Corona, Neri Serneri 2007, 36). Negli anni del boom, l’edificazione intensiva e la mancanza di adeguate forme di governo del territorio ebbero l’effetto di rendere più violenti i fenomeni alluvionali e franosi e di aumentare l’esposizione al rischio: non è certo un caso che alcuni tra i più gravi disastri idrogeologici nella storia dell’Italia unita risalgano proprio a questi anni, quando la gestione del suolo venne “relegata a problema marginale da sacrificare sull’altare dello sviluppo economico” (Palmieri 2012, 134). In effetti la frana di Agrigento fu subito percepita dai partiti di sinistra, dall’opinione pubblica progressista e dalla cultura urbanistica più qualificata come una cartina di tornasole che rivelava quanto poco sostenibile fosse un modello di sviluppo urbano – che si era seguito nella città dei templi, ma non solo – basato sul predominio della rendita, sullo sfruttamento intensivo del suolo, sull’assenza o la debolezza della pianificazione e sull’accondiscendenza o la subalternità dei poteri pubblici rispetto agli interessi privati legati al settore edilizio. Insieme alle drammatiche alluvioni di Firenze, di Venezia e del Veneto che seguirono a distanza di pochi mesi, la frana di Agrigento impose una nuova attenzione ai temi della pianificazione urbanistica e del governo del territorio, spingendo all’adozione di provvedimenti come la legge-ponte e il connesso decreto sugli standard urbanistici. Furono questi, come ha evidenziato Giuseppe Campos Venuti (1993, 17-21), tasselli fondamentali di quella “riforma urbanistica graduale” alla quale si votarono con spirito realistico le forze riformiste dopo aver preso atto, davanti al fallimento dei progetti di Sullo e Pieraccini, dell’impossibilità che il centro-sinistra approdasse a una riforma urbanistica generale capace di modificare radicalmente le modalità della crescita urbana.43 D’altronde, come confido sia emerso chiaramente da questo contributo, le spinte riformatrici espresse dalle forze progressiste e dalla cultura urbanistica dovettero misurarsi e trovare un punto di equilibrio con le resistenze e l’atteggiamento ben più prudente delle forze moderate e conservatrici, tendenti piuttosto a recepire e sostenere la diffusa insofferenza, quando non il sostanziale rifiuto, nei confronti delle regole e dei vincoli della pianificazione che emergeva in casi come questo a livello locale.

1 L’autore ringrazia Salvatore Adorno per i preziosi suggerimenti forniti nella fase iniziale della ricerca.

2 M. Cervi, Agrigento sconvolta da una frana. Cinquemila persone senza tetto, “Corriere della Sera”, 20 luglio 1966.

3 Ibidem.

4 E. Serio, Rase al suolo le costruzioni pericolanti, l’intera zona franosa sarà abbandonata, “Giornale di Sicilia”, 22 luglio 1966. S. Gilotti, Allargata la zona da sgomberare. Si radono al suolo le case pericolanti, ivi, 29 luglio 1966.

5 M. Cervi, Molti degli sfollati di Agrigento non potranno tornare alle loro case, “Corriere della Sera”, 22 luglio 1966. L.G., Saragat ad Agrigento conforta i sinistrati, ivi, 26 luglio 1966.

6 Archivio centrale dello Stato (ACS), Presidenza del Consiglio dei ministri (PCM), Verbali, b. 76, Verbale della riunione del Consiglio dei ministri del 29 luglio 1966. Ivi, Presidenza del Consiglio dei ministri – Ufficio Stampa, comunicato n. 13 del 29 luglio 1966.

7 Atti parlamentari (AP), Camera dei Deputati (CD), IV legislatura, Documenti, Disegni di legge e relazioni, Conversione in legge del decreto-legge 30 luglio 1966, n. 590, recante provvedimenti a favore della Città di Agrigento in conseguenza del movimento franoso verificatosi il 19 luglio 1966, seduta del 4 agosto 1966, p. 1. Il decreto-legge venne convertito con modifiche dalla legge 28 settembre 1966, n. 749.

8 AP, CD, IV legislatura, Discussioni, seduta del 4 agosto 1966, p. 25403.

9 Si veda Alicata (1966). Il libro, che raccoglie una dozzina di articoli e discorsi sulle vicende agrigentine, fu dato alle stampe dopo l’improvvisa morte di Alicata, avvenuta il 6 dicembre 1966, all’indomani di un’infuocata discussione alla Camera durante la quale egli pronunciò il lungo discorso che chiude il volume.

10 AP, CD, IV legislatura, Discussioni, seduta del 4 agosto 1966, pp. 25407-25408.

11 Ivi, p. 25410.

12 Ivi, p. 25413.

13 Ivi, p. 25415.

14 Ivi, pp. 25417-19.

15 Ivi, pp. 25423-25.

16 Ibidem.

17 I discorsi da lui tenuti all’Assemblea regionale siciliana sui fatti di Agrigento sono visionabili nella relativa sezione dell’Archivio digitale Pio La Torre: http://archiviopiolatorre.camera.it/attivita-politica/assemblea-regionale-siciliana (ultimo accesso 9 gennaio 2016).

18 Commissione di indagine sulla situazione urbanistico-edilizia di Agrigento, Relazione al Ministro, on. Giacomo Mancini, Ministero dei Lavori pubblici, Roma, 1966, pp. 21-22.

19 Ivi, p. 137.

20 Ivi, p. 42.

21 Ivi, p. 54.

22 Ivi, p. 77.

23 Ivi, pp. 143-144.

24 L. Jannuzzi, Ecco l’atto d’accusa che fa tremare la DC, “L’Espresso”, 16 ottobre 1966, p. 1.

25 “Urbanistica”, 48, dicembre 1966. Il fascicolo ha un’eloquente copertina interamente nera che reca solo la scritta: “luglio-novembre 1966: agrigento firenze venezia”.

26 G. Astengo, dopo il 19 luglio, ivi, pp. 2-4.

27 ACS, PCM, Atti, 1966-1967, b. 60, f. 29, lettera riservata di Mancini a Moro, 21 ottobre 1966.

28 Ivi, elenco allegato alla lettera di Mancini a Moro. Riguardo alla prima misura indicata da Mancini, merita segnalare che negli anni seguenti effettivamente si celebrò un processo a carico di una trentina di amministratori e funzionari pubblici, che però si concluse con il proscioglimento di tutti gli imputati: si veda De Lucia (2006, 42).

29 ACS, PCM, Verbali, b. 76, Verbale della riunione del Consiglio dei ministri del 26 ottobre 1966.

30 ACS, PCM, Atti, 1966-1967, b. 60, f. 28, appunto dell’Ufficio studi e legislazione della Presidenza del Consiglio dei ministri, 24 ottobre 1966.

31 ACS, PCM, Verbali, b. 76, Verbale della riunione del Consiglio dei ministri del 26 ottobre 1966.

32 Ibidem.

33 AP, CD, IV legislatura, Documenti, Disegni di legge e relazioni, Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150, seduta del 20 dicembre 1966, p. 1.

34 Ivi, p. 6.

35 Invasa la sede del Genio civile. Schedari e carteggi alle fiamme, “L’Ora”, 20-21 dicembre 1966. M.C., Assalto al Genio civile, ivi.

36 f.d., Migliaia di persone, disoccupati o senza tetto, hanno manifestato con gli speculatori edili, “La Stampa”, 21 dicembre 1966.

37 M. Tito, Giornata di tumulti e violenze per i cantieri chiusi ad Agrigento, ivi.

38 Legge 6 agosto 1967, n. 765, Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150.

39 Ministero dei Lavori pubblici, Direzione generale dell’Urbanistica, Indagine sulle licenze edilizie rilasciate nel periodo 1.9.1967-31.8.1968, Ministero dei Lavori Pubblici, Roma, s.d. [1968], p. 6. In quei dodici mesi vennero “inventati programmi fittizi e improbabili” in base ai quali si accumularono licenze edilizie per oltre nove milioni di vani, il triplo degli anni precedenti: Oliva (1997, 560).

40 Decreto interministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765.

41 Tali fenomeni si erano verificati più volte in passato, seppur in forme meno gravi. Gli episodi più recenti risalivano al febbraio 1944 e al marzo 1958, quando erano crollate porzioni di terreno nella zona detta Bibbirria.

42 Sui problemi della ricostruzione e le lotte dei sinistrati, si veda la testimonianza dell’ex sindacalista del Sunia C. Miccichè (2003).

43 Guido Crainz (2003, 69 ss.) vede invece nella frana di Agrigento – e soprattutto negli sviluppi che ne seguirono sul piano politico e legislativo – una delle tappe attraverso cui maturò una vera e propria disfatta dei riformatori in campo urbanistico.

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2012 Dissesto e disastri idrogeologici, in Corona, Malanima. 

Biografia

Bruno Bonomo è ricercatore a tempo determinato di tipo B di Storia contemporanea alla Sapienza Università di Roma, dipartimento di Storia Culture Religioni. I suoi interessi di ricerca vertono prevalentemente sulla storia urbana, la storia della casa e dell’abitare, la metodologia della ricerca storica. Tra le sue pubblicazioni su questi temi: Storie di case. Abitare l’Italia del boom (curato con F. De Pieri, G. Caramellino e F. Zanfi; Donzelli, 2013); Il quartiere delle Valli. Costruire Roma nel secondo dopoguerra (Franco Angeli, 2007); Città di parole. Storia orale da una periferia romana (con A. Portelli, A. Sotgia e U. Viccaro; Donzelli, 2006).

Biography

Bruno Bonomo, Ph.D., is a Lecturer in Contemporary History at the University of Rome Sapienza, Department of History Cultures Religions. His research interests focus on three main areas: urban history; housing, home and everyday life; historical research methods. His publications on these topics include the books: Storie di case. Abitare l’Italia del boom (edited with F. De Pieri, G. Caramellino and F. Zanfi; Donzelli, 2013). Il quartiere delle Valli. Costruire Roma nel secondo dopoguerra (Franco Angeli, 2007). Città di parole. Storia orale da una periferia romana (co-authored with A. Portelli, A. Sotgia and U. Viccaro; Donzelli, 2006).