di Sebastiano Giordani
Abstract
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APciFe: Archivio del Partito comunista della Federazione di Ferrara
Un punto di passaggio
Nella storia del Partito comunista italiano gli anni Settanta rappresentano una tappa cruciale.
Dopo la clandestinità dell’epoca fascista e l’esperienza di governo dell’immediato secondo dopoguerra, l’estromissione del Pci e del Psi dall’esecutivo, voluta da Alcide de Gasperi nel maggio 1947, aveva costretto i due principali partiti della sinistra italiana all’opposizione. A partire dalla sconfitta del Fronte popolare (cioè della lista comune di socialisti e comunisti) alle elezioni del 18 aprile 1948, il Partito comunista aveva elaborato una linea politica di sostanziale autonomia dall’altra grande forza della sinistra, e tale strategia aveva di fatto premiato il Pci con una costante crescita dei consensi elettorali alle elezioni politiche degli anni successivi. Nonostante alcuni momenti difficili per il movimento comunista internazionale (come il 1956, quando le truppe sovietiche avevano stroncato la rivolta ungherese, e il 1968, quando le truppe del patto di Varsavia avevano posto fine alla “primavera di Praga”) nel nostro paese il Pci aveva gradualmente rafforzato la propria posizione all’interno della società, traendo vantaggio anche dall’ondata dei movimenti collettivi che dal 1968 in poi aveva investito numerosi paesi occidentali, tra cui anche l’Italia.
Nel 1972, con l’avvento di Berlinguer alla segreteria, nella politica del Pci vengono introdotte alcune importanti novità1. Non si tratta di novità assolute, poiché quanto matura in quel periodo è il frutto della elaborazione e del dibattito degli anni precedenti. Tuttavia è possibile affermare che a partire dal ’72 alcuni temi assumono un rilievo particolare e cominciano a caratterizzare in modo significativo la linea politica comunista.
Innanzitutto – nel solco di un processo che inizia nell’agosto del 1968, con la condanna dell’invasione della Cecoslovacchia – si assiste negli anni Settanta ad una ridefinizione della posizione del Pci rispetto al movimento comunista internazionale, sulla base del principio della reciproca autonomia tra i diversi partiti comunisti.
Oltre alle questioni internazionali, poi, nella linea politica del Pci assume un rilievo particolare il tema delle alleanze sociali. L’idea è che, nell’ambito di una critica al modello di sviluppo realizzatosi in Italia nel secondo dopoguerra, si realizzi una coincidenza di interessi tra il movimento dei lavoratori ed una serie di gruppi sociali, identificati o in base a categorie sociologico-demografiche oppure sulla base della condizione professionale. Così il partito comincia a cercare nuovi interlocutori: le nuove generazioni e il mondo femminile, ma anche i piccoli e medi imprenditori, i commercianti, gli artigiani, i professionisti – insomma, i cosiddetti ceti medi.
Un altro snodo importante della linea politica comunista negli anni Settanta è il tema delle riforme, che si collega alla necessità di sviluppare una politica portatrice di idee e programmi di ampio respiro, basata sul dialogo con le altre forze politiche democratiche.
Ed è in questa cornice che si colloca la proposta del compromesso storico2, introdotta formalmente nel dibattito politico nell’autunno del ’73 (attraverso tre articoli di Berlinguer pubblicati – in successione – sulla rivista comunista Rinascita) e consistente, in estrema sintesi, nella “prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico” (Berlinguer 1973b; cfr anche Berlinguer 1973; 1973a).
Negli anni Settanta la proposta politica del Pci diviene dunque esplicitamente riformistica, mentre sul fronte interno al partito, pur senza abbandonare il principio del centralismo democratico3, si incoraggiano la partecipazione e il dibattito tra gli iscritti. Intanto, la “questione comunista” catalizza l’attenzione degli osservatori, divenendo un vero leitmotiv della vicenda politica nazionale.
Nella prima parte del decennio il partito accresce la propria influenza sulla società, e incassa anche alcuni importanti successi elettorali: nel 1974 la vittoria nel referendum sul divorzio, contro una Dc isolata e spalleggiata soltanto dai missini; nel 1975 una consistente affermazione alle elezioni amministrative, che segna per il Pci l’avvio di numerose e importanti esperienze di governo locale; nel 1976 l’apogeo del consenso elettorale, con il raggiungimento del 34,4% dei suffragi nelle elezioni della Camera dei deputati, a testimonianza di un apprezzamento diffuso soprattutto tra i giovani.
Ma gli anni Settanta vedono anche l’inizio del declino comunista. I risultati delle elezioni politiche del 1976 rivelano una forte polarizzazione dell’elettorato, che fa convergere sui due maggiori partiti più del 70 percento dei voti. Si apre così la stagione della cosiddetta “solidarietà nazionale”, caratterizzata da due governi monocolori presieduti da Giulio Andreotti ai quali il Partito comunista offre il proprio sostegno dapprima con l’astensione e in seguito con il proprio voto favorevole. Però la stagione della solidarietà nazionale – segnata anche dalla tragica vicenda Moro – logora il rapporto tra Dc e Pci, inducendo i comunisti, nel gennaio ’79, a uscire dalla maggioranza. L’impossibilità di dare vita ad un nuovo governo conduce per la terza volta il paese alle elezioni anticipate, che si tengono il 3-4 giugno 1979 e segnano la prima, importante battuta d’arresto nella crescita elettorale del Pci. Alla Camera il partito perde quattro punti percentuali; soprattutto, perde il consenso dei giovani, e arretra di più dove più aveva guadagnato voti negli anni immediatamente precedenti. L’appeal del Pci nei confronti dell’elettorato e della società italiana perde smalto, e inizia una irreversibile fase di declino che – anche in forza di importanti sconvolgimenti degli assetti geopolitici internazionali – terminerà nel 1991 con lo scioglimento del partito.
Gli anni Settanta, dunque, hanno per il Pci il carattere del culmine e della caduta, e, retrospettivamente, appaiono indubbiamente significativi nella storia del partito4.
Il presente articolo intende soffermarsi su un aspetto particolare di quella fase, concentrando l’attenzione sulla forza organizzata dal partito in Emilia-Romagna e riportando alcuni dati utili a descrivere l’inversione di tendenza che in quegli anni si verifica anche nella regione “rossa” per eccellenza. La ricostruzione dei dati, riguardante in particolare il periodo 1972-79, è basata sulla consultazione degli archivi delle federazioni comuniste regionali.
L’importanza del tesseramento
È stato osservato che nel secondo dopoguerra restano sostanzialmente stabili nel Pci sia la struttura organizzativa sia la fisionomia di partito “ideologico”, due caratteri che costituiscono di fatto elementi di forza. Da un lato, la capacità organizzativa del Pci è stata sempre riconosciuta anche dagli avversari politici, e si è così consolidata, anche a livello di senso comune, l’idea di un partito composto da individui fortemente orientati a seguire le direttive dei vertici (idea che, ovviamente, si è sempre prestata ad essere stigmatizzata oppure orgogliosamente rivendicata a seconda dei punti di vista). D’altro canto, la concezione stessa del partito – “fine più che mezzo dell’azione politica” – è stata addirittura individuata come la componente principale dell’ideologia comunista, alla quale tutte le altre componenti possono essere, in ultima analisi, ricondotte5. Non stupisce, quindi, che il Pci abbia sempre annesso notevole importanza al tesseramento e all’attivismo dei militanti.
Di certo iscriversi al partito comunista significa fin dall’inizio accettare il programma politico comunista, impegnarsi per realizzarlo e “lavorare” per il partito all’interno delle cosiddette istanze di base, cioè la cellula e la sezione6. E tra i compiti dei militanti vi sono, oltre alla diffusione della stampa, alla propaganda e alla organizzazione delle feste dell’Unità, anche le attività di rinnovo delle iscrizioni al partito e il “proselitismo”, cioè – per usare un’espressione molto in uso all’epoca, che denota un palese debito verso il lessico specialistico di ambito militare – il “reclutamento” di nuovi iscritti. Il tutto nell’ottica di una costante espansione del numero degli attivisti.
Le tessere di iscrizione al Pci sono annuali e le campagne per il tesseramento vengono avviate solitamente in autunno, con alcune iniziative tese a dare visibilità al partito7. Nel corso dei mesi successivi i dati relativi alla sottoscrizione delle tessere sono raccolti e registrati metodicamente dalle federazioni; e per ogni valutazione circa l’andamento della campagna di tesseramento in corso si fa abitualmente riferimento al cosiddetto “100%”, ovvero al numero di iscritti raggiunto l’anno precedente8.
La premura per un costante aumento degli iscritti è del resto ampiamente testimoniata dall’assidua corrispondenza tra la direzione nazionale del partito e le federazioni a proposito del tesseramento e delle sottoscrizioni per la stampa comunista, due aspetti strettamente intrecciati anche per la loro rilevanza economica. A riprova dell’attenzione dedicata dalla direzione del partito a questi aspetti sta pure l’organizzazione delle cosiddette “gare di emulazione”, ovvero di competizioni tra le diverse federazioni per la raccolta delle sottoscrizioni e per il rinnovo delle tessere. Alle diverse federazioni sono assegnati obiettivi da raggiungere secondo scadenze temporali prefissate9, e tra quelle che raggiungono tali obiettivi vengono sorteggiati dei premi, costituiti da automobili, viaggi a Mosca, apparecchiature (proiettori, registratori, impianti di amplificazione) o abbonamenti alla stampa comunista (l’Unità e Rinascita)10.
Il tema del tesseramento, insomma, è importante. Ed è oggetto di continua attenzione da parte della segreteria nazionale del partito, sia nei momenti di trend positivo – come ad esempio nel 1970, quando si lamenta che “non si sfugge […] all’impressione che ancora non siamo riusciti ad andare in profondità nell’azione di conquista di nuovi militanti” – sia, all’opposto, nelle congiunture sfavorevoli – come ad esempio nel 1979, quando si sottolinea che “la risposta decisiva consiste sempre nella capacità di un rapporto di massa permanente e continuo con gli iscritti e gli elettori”11.
Gli iscritti al partito in Italia e in Emilia-Romagna
In Italia l’andamento delle iscrizioni al Pci, negli anni che seguono il secondo dopoguerra, attraversa fasi alterne. Vi è un periodo in cui i numeri si espandono quasi costantemente: tra il 1946 e il 1954 il totale degli iscritti, pur con qualche oscillazione, tende ad aumentare di anno in anno sino a raggiungere la cifra di 2.145.317; questa fase positiva è ascrivibile, almeno nella seconda parte, a un notevole impegno organizzativo. In seguito, a partire dal 1955 e per circa un quindicennio, le adesioni al partito vanno calando, in corrispondenza degli scarsi risultati della persistente mobilitazione del Pci per obiettivi sociali ed economici che, in realtà, non vengono conseguiti. Parallelamente, già dagli anni Cinquanta il partito tende a chiudersi su sé stesso: le iniziative sono rivolte più che altro all’interno e si allenta la capacità di interagire con la società; tra la metà degli anni Cinquanta e la metà dei Sessanta la partecipazione ai congressi di partito oscilla tra il 25% e il 30%. A partire dal 1968 inizia una nuova fase, caratterizzata da una sempre più consistente crescita del peso elettorale del Pci. Anche se l’impegno fattivo rimane limitato ad un numero piuttosto ristretto di militanti (nel 1970 coloro che partecipano attivamente alla vita delle sezioni sono tra l’8% e il 12% degli iscritti) in generale si verifica un nuovo aumento degli iscritti e, nel contempo, un mutamento della composizione sociale12. Intanto la forza del Pci comincia a misurarsi non soltanto sul piano organizzativo ma in termini più generali: infatti l’influenza del partito sulla società aumenta, sia attraverso lo sviluppo delle organizzazioni di massa (in particolare il sindacato), sia grazie all’attività delle amministrazioni locali e sia, infine, per l’impulso economico del movimento cooperativo.
Negli anni Settanta tutte queste dinamiche espansive raggiungono l’apogeo, per poi lasciare spazio ad un inarrestabile declino. Di questa evoluzione l’andamento delle iscrizioni al partito può essere considerato un indicatore. Il numero delle adesioni al Pci attinge un nuovo apice nel 1976, quando, pur non eguagliando i risultati dell’immediato dopoguerra, il totale degli iscritti (in Italia, senza considerare le federazioni estere) raggiunge la ragguardevole cifra di 1.797.596 persone. Da allora in poi le tessere cominciano inesorabilmente a calare, mentre gradualmente declinano pure la forza elettorale e l’influenza del Pci sulla società. Nel 1990, alla vigilia dello scioglimento del partito, gli iscritti saranno, comunque, ancora 1.319.905 (Flores, Gallerano, 1992, 132- 35, 143).
Se restringiamo il campo di osservazione dall’ambito nazionale alla sola Emilia-Romagna (regione nella quale, come noto, il Pci raggiunge storicamente un elevato livello di consenso elettorale) le dinamiche del tesseramento si presentano sotto una luce un po’ diversa. Di seguito si riportano, nella Tabella 1, i dati riguardanti il numero delle adesioni al Pci in Italia e in Emilia-Romagna13. L’arco temporale considerato (1949-1989) dipende dalla disponibilità dei dati e dalla possibilità di confrontarli tra loro14. In Emilia-Romagna – come si può chiaramente notare dal seguente grafico, riepilogativo dei dati sugli iscritti – l’andamento altalenante del tesseramento è molto meno marcato. I punti massimi del tesseramento regionale sono ritardati di un anno rispetto a quelli nazionali (479.958 iscritti nel 1955 e 448.595 nel 1977, mentre in Italia gli anni di massimo risultato nel tesseramento sono, rispettivamente, il 1954 e il 1976) e le tendenze al ribasso che seguono tali picchi sono sempre più rallentate rispetto a quelle riscontrabili su base nazionale.
Come si può notare, per il Pci l’Emilia-Romagna ha un’importanza di primo piano, oltre che per i risultati elettorali, anche sotto il profilo organizzativo. Dalla Tabella 1 e dal grafico si può agevolmente rilevare come nella regione si trovino pressoché stabilmente circa un quarto delle tessere comuniste italiane (la percentuale varia negli anni dal 22% al 27%); ed il dato acquisisce ancora maggiore rilevanza se si considera che il “peso” elettorale dell’Emilia-Romagna (valutato rapportando il corpo elettorale regionale con quello nazionale) si mantiene negli anni tra il 1953 e il 1983 intorno a percentuali comprese tra il 7% e l’8% (come risulta dalla Tabella 2).
Il tesseramento nei comuni della regione (1972-79)
Restringendo ulteriormente il campo di osservazione, e passando cioè dalla scala regionale a quella comunale, si evidenzia una maggiore articolazione da zona a zona dei dati riguardanti il tesseramento.
Nelle tabelle dalla 3 alla 12, con riferimento al periodo 1972-1979, sono riportati i dati relativi al numero di iscritti al Pci per ogni comune dell’Emilia-Romagna.
Le informazioni, come si è accennato nel paragrafo introduttivo, sono state assunte dagli archivi delle federazioni regionali del Pci. Non si deve pensare, però, che in tali archivi le notizie sul tesseramento siano facilmente reperibili. Innanzitutto non esistono, o per lo meno non sono stati individuati, documenti ai quali sia possibile attribuire un carattere di ufficialità, tale da renderli certamente probatori: almeno, ciò non accade per i dati relativi ai singoli comuni. Secondariamente, uno dei problemi da risolvere è frequentemente quello della ridondanza. Tra le carte delle federazioni si trovano spesso prospetti riepilogativi, in gran parte manoscritti, che si riferiscono ai diversi momenti nei quali, nel corso di ogni anno, veniva effettuato un controllo sulla situazione del tesseramento: ma l’interpretazione di tali prospetti risulta spesso problematica. Bisogna infatti stabilire quale, fra tali documenti, sia quello – per così dire – definitivo; inoltre, si pone sempre la necessità di cercare qualche riscontro che consenta di convalidare o confutare le cifre indicate. La ricostruzione del numero di iscritti (comune per comune ed anno per anno) è stata quindi effettuata attraverso un confronto critico, effettuato su base logica, dei documenti reperiti; talvolta, oltre ai prospetti riepilogativi di cui si diceva, si è fatto riferimento anche a opuscoli informativi, editi dalle diverse federazioni, nei quali erano riprodotti i dati del tesseramento. Il lavoro, insomma, è stato compiuto su documenti che hanno forma e natura diversa di caso in caso, e testimoniano, nel loro insieme, che in questo ambito, almeno dagli anni Settanta, le diverse federazioni dell’Emilia-Romagna si sono mosse in modo sostanzialmente autonomo. Solo nei casi delle federazioni di Rimini e, in parte, di Bologna si è potuto contare su pubblicazioni nelle quali sono stati riassunti i dati sugli iscritti (Zaghini 1999; per gli anni dal ’72 al ’77 Anderlini, Marzocchi, 1980).
Sebbene l’intento fosse quello di restituire una mappatura completa delle iscrizioni al Pci nei diversi comuni del Emilia-Romagna, il lavoro presenta delle lacune poiché, in alcuni casi, nonostante tutti gli sforzi compiuti, non è stato possibile acquisire tutte le informazioni. Le uniche serie complete sono quelle relative agli anni 1972, 1975 e 1976, mentre per gli altri anni le carenze relative ad alcune federazioni hanno impedito di completare il quadro. In particolare, per la provincia di Piacenza mancano i dati relativi al 1977, al 1978 e al 1979; per la federazione di Reggio Emilia il 1973, il 1974 e il 1977 sono gli anni mancanti; per la provincia di Modena sono risultati introvabili il 1977 e il 1978.
Come si può notare dalla lettura delle tabelle 3-12, il calo delle iscrizioni al Pci – che in regione si verifica dal 1978 in poi – si riverbera in modo differenziato nelle diverse località.
Prendendo in considerazione solo i comuni per i quali sono disponibili i dati del triennio 1977-7915, si rileva che solamente 53 comuni su 191 (pari al 27,5%) escono “indenni” dal biennio ’78-79, cioè non registrano in quei due anni un calo di iscritti. Tra questi 53 comuni si segnalano, per la dimensione del centro abitato, Faenza e, soprattutto, Forlì. In quest’ultimo caso, la “tenuta” della città capoluogo pare avere un effetto di trascinamento sull’intera federazione, che è l’unica della regione ad essere in controtendenza anche sul dato complessivo: nel forlivese, infatti, al contrario di quanto accade nel resto della regione, anche nel ’78 e nel ’79 gli iscritti complessivamente aumentano, seppur di poco.
I dati riportati nelle tabelle 3-12 sono stati messi a confronto con le cifre fornite dal Pci nelle proprie pubblicazioni ufficiali – pubblicazioni che, peraltro, non scendono mai, nella esposizione dei dati, al di sotto del livello provinciale16. Da tale confronto risultano, inevitabilmente, delle discrepanze. In generale, tuttavia – considerate le difficili condizioni nelle quali ci si è trovati ad operare negli archivi e considerato il fatto che le differenze tra i dati ufficiali del Pci e quelli ricostruiti empiricamente sono piuttosto limitate e non alterano gli ordini di grandezza – si può considerare complessivamente attendibile la ricostruzione di dettaglio effettuata17.
Oltre alle cifre relative agli iscritti si è cercato di ricostruire anche un quadro riepilogativo del numero di sezioni di partito presenti sul territorio regionale. (Circa il reperimento dei dati e il metodo utilizzato per confrontare le fonti valgono le considerazioni già espresse in precedenza riguardo il tesseramento). Nella Tabella 13 sono riportati i risultati del lavoro svolto. Nonostante gli sforzi compiuti, come si può notare, anche in questo caso restano delle lacune: segnatamente, manca il dato relativo a Piacenza nel 1979 e sono risultate introvabili numerose informazioni relative al 1974. Nella tabella, il totale delle sezioni regionali è stato indicato solo laddove era possibile disporre di serie complete.
Un dato che risulta piuttosto evidente è la tendenza, col passare degli anni, alla costituzione di un numero sempre maggiore di sezioni. Anche dal 1976-77 in poi, infatti, quando – come si è già accennato in precedenza – il numero complessivo degli iscritti comincia a calare, resta in essere la propensione ad un aumento dalle sezioni, testimoniata anche dalle cifre relative al 1982, riportate nella tabella proprio per consentire un apprezzamento di questo trend.
Il radicamento del partito negli anni Settanta
A chi voglia fornire una misura del rapporto tra forza elettorale e forza organizzativa di un partito si prospetta la scelta tra la ricerca del tasso di adesione (calcolato come percentuale degli iscritti a un determinato partito rispetto al corpo elettorale) e la ricerca del tasso specifico di adesione (calcolato come percentuale degli iscritti a un determinato partito rispetto al totale dei voti ottenuti dal partito stesso). E’ evidente che i due tassi sono in stretta relazione l’uno con l’altro e, in generale, possono essere considerati indicatori dello stesso fenomeno, e cioè del grado di radicamento del partito nella società. Tra di essi esistono però delle differenze.
È di tutta evidenza che laddove il tasso specifico di adesione (rapporto iscritti/voti) è alto, cioè si approssima al 100%, esiste tra gli elettori del partito una diffusa fedeltà al partito stesso, che si manifesta – appunto – non solo tramite il consenso elettorale ma anche attraverso il tesseramento. L’opposto accade dove il tasso specifico di adesione è invece basso (tende a zero): in questi casi soltanto una piccola parte dell’elettorato è motivata al punto da prendere la tessera, mentre tra gli elettori del partito tende a prevalere il cosiddetto “voto di opinione”, proveniente da coloro che, pur sostenendo col proprio suffragio il partito in esame, si mantengono al di fuori della sua organizzazione.
A queste considerazioni riguardanti il rapporto iscritti/voti se ne devono, però, aggiungere altre riguardanti la performance elettorale. In termini di effettivo radicamento del partito sul territorio, infatti, non conta solamente la relazione che sussiste tra i suffragi ricevuti e il numero di coloro che, tra gli elettori, sono anche iscritti. È importante pure tenere in considerazione la dimensione del successo elettorale: è evidente, infatti, che, a parità di tasso specifico di adesione, il radicamento del partito nella società sarà molto maggiore laddove si raggiungono risultati elettorali rilevanti; e sarà, di conseguenza, molto minore nei comuni in cui la performance elettorale è modesta.
Il fatto è chiaramente comprensibile osservando il grafico che segue.
Nel grafico il rettangolo ABCD (che chiameremo d’ora in poi “rettangolo grande”) rappresenta l’insieme dei cittadini aventi diritto di voto (cioè il corpo elettorale) di un determinato territorio, ad esempio un comune. Tale rettangolo ne contiene un altro, più piccolo: si tratta del rettangolo ALMD (d’ora in poi “rettangolo medio”), che rappresenta gli elettori i quali, tra gli aventi diritto, hanno deciso di attribuire il proprio voto al partito in esame. (La parte del rettangolo grande non occupata dal rettangolo medio rappresenta invece tutti gli altri elettori, sia coloro che hanno votato per altre forze politiche, sia coloro che hanno votato scheda bianca o nulla, sia infine coloro che hanno deciso di astenersi non recandosi alle urne). Il rettangolo medio, a sua volta, ne contiene un altro ancora più piccolo, e cioè il rettangolo ALQP (d’ora in poi “rettangolo piccolo”), il quale rappresenta coloro che, tra gli elettori del partito in esame, hanno deciso addirittura di prendere la tessera.
Il rapporto tra l’area del rettangolo piccolo e quella del rettangolo medio, espresso in percentuale, è il tasso specifico di adesione. Il rapporto tra la superficie del rettangolo piccolo e quella del rettangolo grande, espresso in percentuale, è il tasso di adesione. Dal grafico risulta evidente che il primo rapporto esprime il grado di fedeltà degli elettori di una certa forza politica al proprio partito, mentre il secondo esprime, più in generale, il rapporto tra l’insieme della popolazione di un determinato territorio e la capacità di un partito di mobilitare gli elettori fino al punto di attrarli nella propria organizzazione. Per una valutazione del livello di radicamento di un partito sul territorio, dunque, il tasso di adesione pare il più adatto.
Esula dai limiti di questo lavoro un esame sistematico di tipo statistico o sociometrico dei dati di questo genere18. Tuttavia, nell’ambito di un discorso riguardante il Pci in Emilia-Romagna, è parso opportuno esplorare il legame esistente tra il partito e il territorio regionale andando al di là del mero risultato elettorale. Per questo motivo, relativamente ai diversi comuni della regione, si è deciso di riportare nelle tabelle (dalla Tabella 14 alla Tabella 23) il tasso di adesione al Pci, scelto come principale indicatore del radicamento comunista nella regione19. Le tabelle si riferiscono al corpo elettorale per le elezioni della Camera dei deputati nelle quattro tornate degli anni Settanta (1972, 1975, 1976, 1979) e al numero di iscritti al Pci (negli anni corrispondenti) nei diversi comuni20. L’intento, come precisato, è più descrittivo che analitico; in ogni caso, la raccolta sistematica dei dati consente l’agevole individuazione delle peculiarità locali21.
Nelle tabelle 14-23 i dati sono stati ordinati per federazione.
Allo scopo di mettere in evidenza i picchi, in positivo e in negativo, del tasso di adesione al Pci, nelle tabelle successive dati sono stati rielaborati. Nella Tabella 24 sono riportati, in ordine decrescente, i massimi valori raggiunti dal tasso di adesione; nella Tabella 25 compaiono, in ordine crescente, i valori minimi del medesimo tasso. Per entrambe le tabelle la rielaborazione è stata compiuta sui dati del 1976, cioè l’anno in cui l’espansione elettorale comunista raggiunge l’acme.
La militanza attiva: le presenze ai congressi
Per cercare di completare, sia pure a livello descrittivo, il quadro sulla forza organizzata del Pci in Emilia-Romagna, resta da fare un po’ di luce sulla partecipazione attiva alla vita di partito. Su questo argomento, come prevedibile, negli archivi delle federazioni regionali del Pci non è stato possibile reperire molti dati; inoltre, anche in questo caso nella consultazione dei documenti si sono dovute affrontare le generali difficoltà di cui si è parlato in precedenza. Ciononostante, è stato comunque possibile reperire alcune informazioni relative alla partecipazione degli iscritti alle campagne congressuali. Si tratta di notizie quasi sempre sintetiche e riguardanti l’intera federazione, a volte fornite dai segretari federali nelle loro relazioni introduttive ai congressi. Sull’attendibilità delle cifre, però, gravano alcuni interrogativi. Talora i dati sulla partecipazione sono espressi in termini percentuali rispetto agli iscritti della federazione: e ciò lascia irrisolto l’interrogativo circa la base di riferimento per il calcolo della percentuale. (Iscritti dell’anno precedente? Iscritti per l’anno in corso al momento del congresso?) Inoltre, talvolta le cifre sono arrotondate, o le “cifre tonde” sono fornite come limite minimo22. Per finire, in qualche caso non è chiaro se i dati riguardino la sola attività congressuale, cioè la partecipazione ai congressi di sezione, o più in generale si riferiscano all’insieme delle iniziative precongressuali – le quali, oltre ai congressi di sezione, comprendevano anche altre assemblee preparatorie.
Vi sono, insomma, una serie di elementi di indeterminatezza che hanno condizionato la raccolta dei dati. Tuttavia, poiché l’obiettivo non era quello di addivenire alla quantificazione di cifre precise ma piuttosto quello di stabilire degli ordini di grandezza, la raccolta delle informazioni (compendiate dalla Tabella 26 alla Tabella 29) può considerarsi nel complesso soddisfacente perché consente comunque di ragionare su dati concreti.
Purtroppo le tabelle sono in parte lacunose. La loro consultazione consente ad ogni modo di svolgere alcune ultime e molto generali considerazioni.
Innanzitutto, nei dati riportati trova conferma quanto già asserito in precedenza circa il divario tra tesserati e militanti effettivi. Di là dalle differenze tra le diverse federazioni, le medie ponderate riportate in fondo alle tabelle (le quali, ovviamente, sono tanto più significative quanto più le tabelle sono popolate di cifre) ci dicono che la partecipazione degli iscritti varia tra il 26% e il 17%, e va calando sul finire del decennio.
Una tendenza opposta segue invece la percentuale degli interventi ai congressi, che tende ad aumentare negli anni e pare essere inversamente proporzionale a quella riguardante la presenza. Di primo acchito, il dato sugli interventi parrebbe essere testimonianza di una partecipazione più attiva dei militanti alle assise di partito; tuttavia non bisogna dimenticare che, se si verifica un calo delle presenze, la percentuale che esprime il rapporto tra numero di interventi ai congressi e totale dei presenti tende logicamente ad aumentare. D’altro canto una valutazione sui valori assoluti (cioè non percentuali) è resa molto difficoltosa dalla frammentarietà delle informazioni disponibili. L’unica serie completa infatti è quella relativa a Ravenna, dove, effettivamente, la propensione dei militanti ad intervenire ai congressi sembrerebbe confermata. In generale, comunque, nell’interpretazione di questo dato occorre molta cautela.
Infine, un breve commento sui dati relativi alla presenza delle donne. A questo proposito le informazioni sono davvero molto scarse e non autorizzano a compiere valutazioni che vadano oltre la registrazione del dato numerico, mediamente oscillante, come si può notare, tra il 16% e il 21%. A completamento di questa constatazione si può aggiungere che per solo due federazioni (quella di Ravenna per il 1977 e quella di Ferrara per il 1979) sono disponibili anche i dati relativi al numero di interventi compiuti dalle donne nei congressi di sezione. Benché quantitativamente poco rappresentativi rispetto al totale, i due dati sono però praticamente coincidenti: in entrambi i casi, infatti, il numero di interventi compiuti da donne rispetto al numero totale degli interventi compiuti ai congressi è circa pari al 13% (192 su 1479 a Ravenna nel 1977; 200 su 1500 a Ferrara nel 1979).
Breve nota conclusiva
Come è possibile constatare dalla lettura delle pagine precedenti, questo articolo costituisce un primo passo verso la costruzione di una banca dati che, opportunamente ampliata, renderebbe possibile compiere inferenze maggiormente fondate ed aventi concreto valore euristico. Sebbene, a parere di chi scrive, si possa considerare già un risultato la divulgazione di alcune cifre di dettaglio (prima d’ora non pubblicate) riguardanti la forza organizzata del Pci in Emilia-Romagna, è certo che, qualora le serie fossero completate ed estese ad un periodo temporale più vasto, ante e post anni Settanta, il quadro generale si arricchirebbe. La raccolta dei dati potrebbe infatti divenire utile sia per una ricostruzione della storia regionale del Pci sia per lo studio del radicamento della subcultura comunista nella regione – anche in relazione alla permanenza o meno di certe prassi elettorali. Ed è evidente che un eventuale prosieguo del lavoro in questa direzione si gioverebbe notevolmente di un approccio multidisciplinare, nel quale le competenze della ricerca storica, politologica, sociologica e statistica potessero essere utilmente messe a frutto.
Consulta le tabelle dei dati quantitativi relativi alla ricerca
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1992 Sul Pci. Un’interpretazione storica, Bologna, Il Mulino.
Ghini Celso
1982 Gli iscritti al partito e alla Fgci. 1943/1979, in Accornero, Ilardi.
Ilardi Massimo
1982 Sistema di potere e ideologia nel Pci. Le conferenze nazionali d’organizzazione, in Accornero, Ilardi.
Zaghini Paolo
1999 La Federazione Comunista Riminese (1949-1991), Rimini, Pietroneno Capitani Editore.
Contenuti correlati
- Gli elementi principali della politica comunista degli anni Settanta sono sostanzialmente già contenuti nella relazione presentata nel dicembre 1971 da Enrico Berlinguer al comitato centrale del partito (Berlinguer [1972]). [↩]
- La riflessione sul tema dello “spostamento verso sinistra” del paese, comunque, era cominciata per tempo. Come fa notare Guido Crainz, già nel marzo 1971, in una riunione della Direzione del partito e dei segretari regionali, Berlinguer, allora vice-segretario del Pci, aveva già fatto riferimento a questo problema cruciale, presentandolo come il nodo centrale del futuro congresso: “come si può andare avanti effettivamente in un Paese come l’Italia senza scatenare una reazione che stronchi questa spinta in avanti?” (Crainz 2009, 118. Crainz fa notare che nel verbale la frase è sottolineata e a caratteri maiuscoli.) Del resto, pure la relazione di Berlinguer al XIII congresso del marzo 1972 (in occasione del quale egli sarà eletto segretario) delinea i termini della questione, promuovendo di fatto una riflessione all’interno del partito su questo punto (Berlinguer[1972]). È con gli articoli apparsi nel 1973, tuttavia, che la proposta politica viene presentata con il nome “compromesso storico”. Una dettagliata ricostruzione delle vicende di quell’autunno è contenuta in Barbagallo 2006, 185-92. [↩]
- Il principio, di derivazione leninista, da un lato promuove il dibattito interno al partito, dall’altro vincola l’azione del partito stesso e dei suoi militanti al rispetto dell’esito di tale dibattito, rendendo cogenti le decisioni assunte e non ammettendo la formazione di correnti interne che manifestino posizioni di dissenso. [↩]
- Una sintetica, ed anche critica, ricostruzione di quella fase di “apogeo e declino” del Pci è contenuta in Crainz 2012, 28-42. [↩]
- Ilardi 1982, 3-33; Flores, Gallerano1992, 131-48. Il testo di Flores e Gallerano, in particolare, contiene una sintetica e interessante ricostruzione delle dinamiche esistenti tra il partito e la sua organizzazione. Ricostruzione nella quale, tra l’altro, si individua una “specifica forma di doppiezza” laddove si registra nell’attività della leadership comunista la coesistenza di elementi contraddittori: da un lato, l’idea di partito di massa; dall’altro, l’idea di partito composto da quadri militanti, cioè da rivoluzionari di professione. [↩]
- Art. 2 dello statuto approvato nel 1946 al V congresso del Pci di Roma. Partito comunista italiano, Statuto del Partito comunista italiano. Approvato dal 5° congresso nazionale del Pci, s.n., s.l., s.d. [↩]
- Un esempio di come fosse organizzata la campagna per il tesseramento è testimoniato in APciFe, Segreteria 1973-1977, Circolare della segreteria di federazione, 16 ottobre 1975 (indirizzata agli organi federali ed alle altre unità organizzative della federazione). [↩]
- Quando, sul finire degli anni Settanta, il risultato del “100%” diviene difficile da raggiungere, non mancano gli interventi della federazione presso le unità organizzative di livello inferiore del partito al fine di richiedere il massimo impegno per il raggiungimento degli obiettivi. Ad esempio: APciFe, Dipartimento problemi del partito organizzazione 1979-1980, Circolare della segreteria di federazione, 30 aprile 1979 (indirizzata ai segretari delle altre unità organizzative della federazione e ai militanti aventi incarichi specifici per la campagna elettorale in corso). [↩]
- Ad esempio: raggiungimento del 15% dell’obiettivo finale entro una certa data, raggiungimento del 30% entro un’altra data, e così via. [↩]
- APciFe, Stampa e propaganda 1960-1970, Comunicazioni della direzione del partito alla segreteria di federazione, del 4 giugno 1968, del 28 aprile 1969, del 15 e 18 giugno 1970. Gli esempi sono tratti dall’archivio della Federazione di Ferrara, ma è evidente, anche dalla formattazione dei documenti, che si tratta di circolari dattiloscritte predisposte per tutte le federazioni, con alcuni campi (nome della federazione e obiettivi finanziari) manoscritti perché diversi di caso in caso. [↩]
- APciFe: Organizzazione 1969-1975, Lettera del segretario del Pci Luigi Longo al segretario della federazione di Ferrara, 11 aprile 1970; Dipartimento problemi del partito organizzazione 1979-1980, Lettera del segretario del partito Enrico Berlinguer sul tema del tesseramento, ottobre 1979. Anche in questo caso gli esempi sono tratti dall’archivio della Federazione di Ferrara, ma è evidente che si tratta di circolari predisposte per tutte le federazioni. [↩]
- Dal punto di vista sociologico il Pci negli anni Quaranta si presenta come un partito sostanzialmente operaio e contadino; in seguito questa composizione sociale muta, e tra gli iscritti al Pci, a fianco degli operai, compaiono lavoratori dipendenti in generale e, sebbene in minor misura, anche imprenditori e professionisti. (Flores, Gallerano 1992, 133). [↩]
- I dati relativi agli iscritti in Italia sono rilevati dalle seguenti fonti: Dati sull’organizzazione del Pci (dati statistici elaborati dalla Sezione centrale di organizzazione della Direzione del Pci) editi negli anni 1972, 1975, 1979, 1983 e 1986; Ghini 1982; Anderlini 1990. Da quest’ultima fonte sono tratti i dati relativi alla regione Emilia-Romagna. [↩]
- Nel 1949, in particolare, viene ricostituita la Federazione giovanile, la quale provvede ad un tesseramento separato rispetto al partito; solo a partire da quell’anno diviene quindi possibile compiere una corretta comparazione dei dati, riguardanti i soli iscritti al Pci. [↩]
- Si escludono quindi, per mancanza di dati, le federazioni di Piacenza, Reggio Emilia e Modena; inoltre, si tolgono dal novero pure i dieci comuni della Valconca, nel riminese, perché, come si può vedere dalla tabella riguardante quella federazione, le cifre relative agli iscritti di tali località sono disponibili solo aggregate e non consentono un apprezzamento delle variazioni comune per comune. [↩]
- Dati sull’organizzazione del Pci (dati statistici elaborati dalla Sezione centrale di organizzazione della Direzione del Pci) editi negli anni 1972, 1975, 1979, 1983 e 1986. Le cifre relative agli iscritti al Pci (ma solo i totali per ciascuna provincia) nelle diverse federazioni emiliano-romagnole (dal 1944 al 1989, con lacune solo per 1957 e 1958) sono raccolte in Anderlini 1990, 391. [↩]
- In generale, le differenze sono piuttosto contenute. In fase di verifica, è stato individuato il divario esistente tra il numero di iscritti federazione per federazione ufficialmente dichiarato dal Pci e il numero totale degli iscritti determinato empiricamente tramite le ricerche negli archivi. Tale divario è stato rapportato con lo stesso numero totale degli iscritti determinato empiricamente, ottenendo così la percentuale di scostamento tra i dati. Lo scostamento varia nelle diverse federazioni e nei diversi anni. A Modena e Reggio Emilia i conti tornano perfettamente. A Ferrara il divario è al massimo dello 0,1%, a Ravenna al massimo dello 0,2% e a Forlì al massimo dello 0,3%. A Rimini lo scostamento raggiunge il valore dello 0,4% solo nel 1976, a Imola giunge allo 0,9% solo nel 1972 e a Parma attinge quota 0,9% solo nel 1975: negli altri anni in queste federazioni lo scostamento, se c’è, resta su valori inferiori. A Piacenza si verificano due errori significativi: nel 1976 dell’1,1% e nel 1972 dell’1,6%, mentre negli altri anni il divario è insignificante. La situazione più problematica si riscontra nella federazione di Bologna, dove lo scostamento si mantiene in tutti gli anni tra l’1,5% e l’1,8%. Tutte le grandezze sin qui indicate sono in valore assoluto: il segno dello scostamento (in più o in meno) varia di caso in caso (nel caso di Bologna è sempre negativo, e ciò significa che i dati ufficiali del Pci sono sempre inferiori a quelli determinati tramite le ricerche di archivio). [↩]
- Per un’analisi in medias res sull’organizzazione del Pci e sul rapporto del partito con i movimenti collettivi (un’analisi riguardante il partito in generale ma comprendente pure qualche approfondimento sulla situazione di Bologna e sulle “zone rosse”) si rimanda a Barbagli, Corbetta 1978. [↩]
- La scelta di non riportare nelle tabelle il tasso specifico di adesione risponde anche allo scopo di limitare la mole dei dati e favorire la concentrazione dell’attenzione su quelli ritenuti più significativi. [↩]
- Nella lettura dei dati si tenga presente che, dal 1975 in poi, l’introduzione del diritto di voto per i diciottenni comporta una repentina espansione del corpo elettorale, al di là della naturale tendenza all’aumento di quest’ultimo dovuta alle dinamiche demografiche. [↩]
- Per Piacenza, come già visto, mancano i dati relativi al 1979. [↩]
- Ad esempio: per la federazione di Bologna nel 1972 si afferma che nella discussione dei congressi “sono intervenuti oltre 4.000 compagni”. (Archivio del Partito comunista della federazione di Bologna, Congressi provinciali, 13° Congresso. Atti, b. 7, fasc. 1, Relazione di Vincenzo Galetti.) [↩]