Una mobilità che si stabilizza, un “esilio” che non si conclude: il caso degli italiani in Francia nella stagione napoleonica

di Paolo Conte

Introduzione: ripensare la categoria di «esilio»

In una fase in cui il tema delle migrazioni transnazionali è ormai sempre più al centro del dibattito pubblico, anche in ambito storico gli studi sulla mobilità riscuotono oggi una grande fortuna. Non senza finalità politiche ma pur con tutto il rigore del caso, simili ricerche si propongono di riflettere su impatto ed eredità che tali circolazioni hanno avuto non solo nella vita degli uomini costretti a migrare, ma anche nell’assetto interno di ambo i paesi interessati. In particolar modo, l’esilio ottocentesco è oggi oggetto di un’attenzione crescente, dovuta al fatto che il secolo dei nazionalismi costituisce un terreno d’analisi privilegiato non solo per via della consistenza numerica dei flussi migratori avviatisi a seguito delle varie svolte rivoluzionarie susseguitesi in quei decenni, ma anche perché, negli anni della difficile costruzione dell’identità europea, esso permette di analizzare attentamente l’apporto che la mobilità politica ha avuto nella costruzione delle varie identità nazionali. Non a caso, per quanto riguarda il contesto italiano, proprio nel 150esimo dell’Unità sono stati dati alle stampe lavori giustamente volti a sottolineare il ruolo che l’esilio – e con esso il contatto con realtà e contesti territoriali diversi – ha assunto nell’articolazione del processo risorgimentale1.

Tuttavia, qui sembra che ancora troppo spesso tali studi siano incentrati su una lettura della categoria di esilio oltremodo rigida, secondo la quale tale permanenza all’estero sarebbe da considerarsi come una fase certo importante, ma nel complesso limitata nel tempo e priva di significative interazioni con personaggi ed istituzioni del paese d’arrivo. Nostro tentativo, pertanto, sarà di riflettere – in particolar modo per mezzo dello studio sulla mobilità politica degli italiani in Francia nella stagione napoleonica – sulle caratteristiche operative e sull’evoluzione cronologica che spesso l’esilio rivela avere. Innanzitutto, perché la condizione di esule non per forza equivale a quella di segreto cospiratore in terra straniera, ma può invece contemplare anche forme di attiva collaborazione, culturale ed amministrativa, con il nuovo contesto di riferimento. Poi, perché la contingente necessità iniziale di sottrarsi all’arresto in patria rifugiandosi all’estero non comporta automaticamente l’impossibilità di proseguire tale soggiorno allorquando il sopravvenuto mutamento del contesto ne permetterebbe l’interruzione. Insomma, l’esilio, ben lungi dall’avere una sorte già scritta al momento del suo avvio, può evolvere e mutare natura nel corso del suo articolarsi, e, per quanto riguarda la sua durata, può rivelarsi molto più di una semplice parentesi sempre e comunque destinata a chiudersi.

Da ciò, sul piano metodologico, deriva la non marginale esigenza di sfumare la distinzione, sovente troppo netta, fra una mobilità politica da intendersi come breve, imposta dagli eventi ed essenzialmente condotta nel generale disinteresse verso le vicende del paese d’arrivo, ed una mobilità economica che invece sarebbe più lunga, maggiormente voluta, ma anche meno attenta agli eventi nel frattempo articolatisi in patria. Spesso, infatti, le due si intrecciano e si condizionano a vicenda, cosicché può accadere che un’emigrazione professionale dia avvio a processi di politicizzazione altrimenti non possibili nel paese d’origine, oppure che un allontanamento nato per motivi politici evolva nel corso del tempo fino ad assumere connotati differenti rispetto a quelli iniziali, senza per questo del tutto perdere le sue originarie caratteristiche ideologiche.

Da questo punto di vista, il più generale caso degli esuli in Francia negli anni napoleonici risulta quanto mai emblematico, perché il loro soggiorno Oltralpe, avviatosi sotto l’imposizione delle contingenze politiche causate dal crollo delle “repubbliche sorelle” sorte nel Triennio 1796-1799, fu ben lungi dall’interrompersi appena possibile, ma, almeno in molti casi, si protrasse ancora a lungo. E proprio questa continuazione, più voluta che subita, trasformando le caratteristiche originarie con cui l’esilio aveva preso avvio, avrebbe generato significative conseguenze nella storia – non solo politica, ma anche culturale – di entrambi i paesi in questione.

Fra fuga forzata e permanenza voluta: l’illustre percorso di Ennio Quirino Visconti

Nel dare alle stampe a Parigi uno dei numerosi testi del suo Voyage aux régions équinotiales, nel 1810 il celebre viaggiatore prussiano Alexander Von Humboldt decideva di dedicare il volume in questione, intitolato Vues des cordillères e tutto incentrato sulla descrizione dei monumenti antichi di Messico e Perù, all’italiano Ennio Quirino Visconti2. Nulla di sconvolgente in una simile dedica, perché Visconti, ormai da circa dieci anni responsabile della sezione delle antichità al Museo del Louvre, al tempo era considerato uno dei massimi esperti mondiali in tema di archeologia e storia dell’arte antica. E poi perché, durante il suo lungo soggiorno parigino, egli aveva avuto modo di conoscere personalmente Humboldt, dato che i due erano da tempo illustri componenti ed assidui frequentatori di quell’Institut National che, sin dagli ultimi anni della Rivoluzione, radunava nelle proprie sale le più importanti personalità della cultura umanista e scientifica europea. Insomma, come appunto la dedica humboldtiana stava ad attestare, sulle due rive della Senna il romano Visconti era riuscito a ritagliarsi un ruolo di assoluto prestigio: dalla rive droite del Louvre alla rive gauche dell’Institut, per lui il passo – non solo prettamente fisico – era stato piuttosto breve e ben riuscito. Il lavoro negli apparati statali francesi e l’inclusione nelle élités savantes parigine testimoniavano la sua completa integrazione, tanto professionale quanto intellettuale, nelle più prestigiose istituzioni di una città, la Parigi napoleonica, che si proponeva di ergersi a capitale culturale dell’Europa continentale e nella quale, per l’appunto, un uomo del suo profilo non aveva faticato a far emergere le proprie competenze3.

Tale integrazione sarebbe stata poi ufficialmente confermata anche qualche anno più tardi, quando, caduto l’Impero, Visconti chiedeva ed otteneva la naturalizzazione francese, in tal modo attestando tanto la personale volontà di continuare – e rinsaldare – la propria permanenza parigina, quanto la sostanziale benevolenza nutrita nei suoi confronti finanche dalle restaurate istituzioni monarchiche. A tal riguardo, merita qui di essere riportato il passaggio con cui il Ministero della giustizia che nel 1815 fu chiamato a gestire il dossier di naturalizzazione approvava la sua domanda, in quanto esso dimostra come la consolidata integrazione parigina di Visconti fosse talmente nota da rendere inutili finanche particolari ricerche sul suo conto:

M. Visconti est actuellement connu en France par ses travaux littéraires, par les savants ouvrages qu’il a publiés et par les récompenses honorables qu’il a mérité, que je n’ai pas cru devoir prendre des renseignements sur sa personne. Il est chevalier de la Légion d’honneur, membre de l’Institut, dans les deux classes de beaux-arts et de la Littérature ancienne, et conservateur au musée royal du Louvre ; enfin sa résidence en France depuis l’année 1799 est de toute notoriété publique. Je pense donc que rien ne s’oppose à ce que sa demande soit favorablement accueillie4.

Dunque, si potrebbe considerare la presenza di Visconti a Parigi come il classico caso di emigrazione intellettuale, di mobilità dovuta a questioni essenzialmente professionali e facilitata dall’alto profilo culturale del suo protagonista. Lettura, questa, certo non lontana dal vero, ma comunque ben lungi dall’essere esaustiva: nel valutare le caratteristiche del soggiorno in Francia di Visconti c’è un altro dato importante da tener in considerazione, ossia la circostanza per cui tale permanenza aveva preso avvio «depuis l’année 1799». Nell’estate di quell’anno, infatti, a seguito del crollo delle “repubbliche sorelle” e del conseguente avvio della Restaurazione in Italia, Visconti, come centinaia di suoi connazionali romani e come migliaia di italiani provenienti da diverse zone della Penisola, era giunto in Francia per sottrarsi all’arresto in patria. Ciò significa, dunque, che egli aveva dovuto abbandonare la natìa Roma non per ragioni professionali, ma per questioni squisitamente politiche, ossia a causa della sua partecipazione agli eventi che, sotto la spinta del fondamentale impulso delle armate repubblicane francesi e con l’attivo supporto del mondo patriottico italiano, nel corso del Triennio 1796-99 avevano portato la rivoluzione anche al di qua delle Alpi. Nello specifico, Visconti aveva partecipato da protagonista, nel 1798, alla proclamazione della Repubblica romana, di cui fu anche ministro degli Interni, per poi essere costretto, nell’estate dell’anno successivo, a fuggire all’estero imbarcandosi alla volta di Marsiglia, da dove avrebbe nel giro di qualche mese raggiunto Parigi e qui avviato la brillante carriera di cui si è detto5. Insomma, il Visconti che negli ultimi mesi del secolo si rifugiava in Francia era a tutti gli effetti un esule politico.

Una condizione, questa, che dunque non solo fu alla base del suo contatto con il nuovo contesto nazionale, ma poi non gli avrebbe nemmeno impedito d’integrarsi nelle istituzioni della Francia degli albori del nuovo secolo. Il suo soggiorno a Parigi, pertanto, nasceva sì da cause politiche, originava sì dalla contingenza dell’Italia del 1799, ma non per questo sarebbe poi stato caratterizzato dalla mancanza di qualsiasi forma di attiva collaborazione con le istituzioni del posto e dalla volontà di far presto rientro in patria. Tutt’altro: perché, come detto, la permanenza parigina di Visconti non si sarebbe conclusa nemmeno quando il contesto che l’aveva inizialmente imposta si sarebbe nuovamente modificato, cioé dopo che il ritorno in armi francese nella Penisola, sancito dalla vittoria repubblicana di Marengo del giugno 1800, aveva reso possibile metter fine all’esilio, tant’è vero che proprio a Parigi egli avrebbe concluso i suoi giorni nel febbraio del 1818. Fu anzi proprio la collaborazione con le istituzioni di marca francese a consentirgli la prosecuzione di un soggiorno all’estero che da forzata conseguenza delle difficoltà della situazione contingente nel corso del tempo era divenuto, sempre senza interruzioni temporali, il risultato di una libera scelta individuale. E così, ad esempio, quando nella primavera del 1801 gli scadeva la «carte d’hospitalité» che fino ad allora gli aveva permesso di soggiornare nella capitale francese, Visconti ne chiedeva il rinnovo proprio facendo leva sugli importanti incarichi istituzionali nel frattempo ottenuti, ossia sostenendo che «attendu ma qualité d’Italien réfugié en France, quoique d’ailleurs comme un des membres du Conseil d’administration du Musée Central des arts, j’ai l’honneur d’être comté entre les fonctionnaires publics de la République Française»6.

Pertanto, qui sembra opportuno riprendere la riflessione di chi, come Antonino De Francesco, ha rivalutato la dimensione politica dell’attività svolta dai patrioti italiani negli anni napoleonici rifiutandosi di leggere il loro impegno in quegli anni quale mero risultato di una ipotetica “svolta moderata”7, oppure di chi, come Umberto Carpi, ha individuato le origini dell’identità nazionale proprio nel drammatico passaggio che, nei primissimi anni del XIX secolo, aveva portato i protagonisti della generazione giacobina italiana a trasformarsi da patrioti a napoleonici (o meglio: da patrioti a patrioti e napoleonici)8. Simili prospettive, infatti, meritano di essere applicate anche all’esilio, poco o nulla studiato per la stagione napoleonica come già ricordato a suo tempo da Franco Venturi nella sua indimenticabile ricostruzione dell’«Italia fuori d’Italia»9. Tali riflessioni, cioé, necessitano di essere impiegate non solo per i rivoluzionari divenuti funzionari nelle istituzioni dell’Italia napoleonica, ma anche per quei rifugiati che decisero di prolungare la propria permanenza in Francia finanche dopo Marengo, finanche dopo il 1802 dei Comizi di Lione e dell’annessione del Piemonte alla Francia. La continuazione del loro soggiorno all’estero, infatti, andò di pari passo con l’evoluzione della loro esperienza politica: così, non più esuli-rivoluzionari come al momento dell’arrivo, bensì esuli-funzionari per tutto il corso della stagione napoleonica, con tutto ciò che tale passaggio avrebbe significato per loro in termini di attività politica e d’integrazione con le istituzioni del posto, in termini d’impegno culturale e di rapporti con la società del paese d’arrivo10.

Di qui, dunque, appare forte la necessità, al di là del singolo caso di Visconti, di riconsiderare il concetto di esilio e di interrogarsi più approfonditamente sulle caratteristiche con cui, in particolar modo nella stagione napoleonica, esso fu vissuto dai suoi protagonisti.

Il soggiorno nella Francia napoleonica degli esuli-funzionari

Se nel 1799 il crollo delle “repubbliche sorelle” aveva imposto ai patrioti dei diversi stati peninsulari di rifugiarsi Oltralpe e di qui operare essenzialmente per esortare le istituzioni del posto a favorire un ritorno in armi in Italia, già a partire dall’estate successiva l’esilio italiano in Francia non solo non era più la mera risultante della contingenza del tempo, ma cominciava ad assumere tratti differenti e più sfumati propositi culturali. A causarlo, infatti, non erano più i problemi legati allo scenario di riferimento, ma la personale volontà dei suoi protagonisti di prolungare tale permanenza allo scopo di cogliere le possibilità offertevi e proseguire, da altri luoghi e con altre forme, il precedente operato. Del resto, anche chi, come Anna Maria Rao, all’emigrazione politica italiana in Francia negli anni rivoluzionari ha consacrato una monumentale monografia, non ha mancato di sottolineare, terminando le sue ricerche a quel 1802 che segnò un massiccio rientro in patria di tali esuli, come, proprio a far data da quell’anno, per coloro i quali decidevano di rimanere in Francia «cominciava la storia, ancora in gran parte da esplorare, di un impegno diverso da quello in cui li aveva gettati il vortice della rivoluzione, ma a questo profondamente legato: un impegno che li spingeva a trasferire sul terreno storico e letterario la ricerca e la costruzione di quella identità nazionale che avevano pensato di poter realizzare sul piano politico attraverso la costruzione di uno Stato unitario»11.

Ciò che qui più preme sottolineare, pertanto, è come, anche e soprattutto in virtù di tale continuazione, la presenza italiana in Francia, lungi dall’essere una mera vicenda nazionale, avrebbe significativamente inciso anche sulla storia del paese d’arrivo12. Non più vicenda italiana, dunque, ma questione europea, perché decisiva, ad esempio, nella diffusione continentale della letteratura della Penisola. Infatti, attraverso traduzioni da ed in italiano, pubblicazioni di ricostruzioni storiche e di antologie di testi classici, specifici interventi su periodici francesi e creazioni ex novo di giornali italiani, gli esuli della Penisola avrebbero in tale fase non poco condizionato la produzione culturale della Francia del tempo13. Ne danno testimonianza le parole con cui, l’intellettuale parigino Alexis-François Artaud de Montor, nel motivare le ragioni che lo avevano spinto a dare alle stampe, fra 1811 e 1813, la traduzione commentata dei tre volumi della Divina Commedia dantesca, riconosceva il suo debito nei confronti di una comunità, quella degli italiani in Francia, che molto si era adoperata in quegli anni per far conoscere e rendere fruibile Oltralpe i maggiori autori della letteratura nostrana:

Je me bornerai à ajouter ici, que j’ai désiré rappeler, sur le sublime ouvrage du Dante, l’attention des François qu’une heureuse communauté d’espérances et de succès fixe en Italie et celle de ces Italiens que les événements et les récompenses du Gouvernement ont attirés en France, où, toujours spirituels, toujours pénétrés d’un esprit national qu’on ne saurait trop admirer, ils nous apprennent à estimer et à aimer, comme eux, les beaux génies qui ont fondé, sur des bases immortelles, la gloire littéraire de leur patrie14.

Il caso di Visconti, dunque, fu tutt’altro che isolato, perché se certo dopo la proclamazione della Repubblica italiana un numero consistente di esuli decise di far rientro in patria, è altrettanto vero che una parte non marginale di essi preferì proseguire ancora a lungo la propria permanenza Oltralpe, in tal modo contribuendo a strutturare una vera e propria comunità italiana nella Francia napoleonica. In particolar modo, il principale luogo d’attrazione non poteva che essere Parigi, città che, per la sua centralità politico-istituzionale e per le numerose attrazioni scientifico-culturali in grado di offrire, costituiva un ambitissimo luogo di convergenza per i cittadini di tutt’Europa, l’epicentro di un mondo in costante mutamento.

Qui si installò, ad esempio, Carlo Lauberg, che, dopo essere stato il leader dei movimenti giacobini avviatisi nel Regno di Napoli agli albori del decennio rivoluzionario e poi il primo presidente della Repubblica napoletana del 1799, proprio a partire dall’autunno di quell’anno si mise in evidenza per il suo operato medico, tanto da essere segnalato perché «même dans ses moments de liberté il allait dans l’asile du pauvre donner des soins désintéressés» e, soprattutto, tanto da arrivare a ricoprire ruoli di un certo spessore fino ad essere nominato, nel gennaio 1814, responsabile dell’Ispettorato di Sanità in sostituzione del celebre farmacista Antoine Parmentier15.

Giunto anch’egli nella capitale francese dopo il crollo delle “repubbliche sorelle”, il veronese Antonio Buttura, invece, articolò il suo soggiorno fra impegno letterario e ruoli diplomatici. Nel 1803 fu direttore de La Domenica, primo giornale italiano redatto nella capitale francese, poi fu fra i funzionari di quel Ministero degli Esteri del Regno d’Italia che era costretto ad aver sede sulle rive della Senna, mentre nel 1806 si mise in luce per la sua traduzione dell’arte poetica di Boileau16. Infine, agli albori della Restaurazione, dopo un breve biennio trascorso a Fiume in qualità di Console, decise di far rientro a Parigi anziché in patria, e qui, nel 1818, sottopose al Dicastero degli Esteri una lunga memoria in cui, descrivendo la Francia come «l’appui naturel de l’Italie contre les puissances septentrionales», proponeva una serie di «moyens indirects» volti ad «aplanir les Alpes qui séparent ces deux pays». Fra tali progetti, vanno segnalati l’istallazione a Napoli di un’«école française de musique» e, soprattutto, un «rapport sur les ouvrages d’arts et de sciences qui sont publiés en Italie». Progetto, quest’ultimo, che Buttura avrebbe poi concretamente realizzato dando alle stampe, ancora negli anni Venti e sempre a Parigi, diversi volumi della Biblioteca italiana, sorta di antologia commentata volta a far conoscere in Francia il meglio di prosa e poesia della Penisola17.

Percorso in parte diverso fu quello del bresciano Giovanni Antonio Galignani, perché il suo arrivo a Parigi nel 1799 (non poco facilitato dalle raccomandazioni dell’allora deputato del Consiglio dei Cinquecento Charles Van Hulthem18) fu preceduto da anni trascorsi a Londra. Eppure, anch’egli si sarebbe presto integrato nella ville lumière, dove sarebbe morto nel lontano 1821 dopo aver trascorso i primi anni come insegnante di lingua e, soprattutto, dopo aver fondato nel 1802 una libreria franco-inglese che è tutt’oggi operante nella centralissima rue de Rivoli, a testimonianza di come proprio la prosecuzione di tale soggiorno parigino avrebbe consentito agli esuli italiani di molto contribuire all’articolazione degli spazi di sociabilità della loro nuova città di residenza19.

Insomma, si sono qui voluti illustrare soltanto alcuni sparuti esempi, che però permettono di attestare come, almeno in parte, gli esuli del 1799 avrebbero ancora a lungo protratto, seppur con forme e modalità differenti, il loro impegno in quel paese che, anni prima, aveva permesso loro di sottrarsi all’arresto in patria. Esempi, questi, che dunque consentono di delineare una nuova direttrice di ricerca volta a concepire l’esilio non solo e non tanto come una fase limitata e priva di particolari interazioni con il contesto di riferimento, ma soprattutto come l’inizio di un più profondo percorso di vita, rivelatosi spesso foriero di cambiamenti duraturi e quasi sempre ricco di ulteriori esperienze professionali e di nuovi rapporti umani. Insomma, per riprendere le note parole di un altro illustre esponente di tale generazione quale Ugo Foscolo, è possibile sostenere che, per quanto riguarda il caso degli esuli italiani a lungo rimasti nella Francia napoleonica dopo la forzata fuga del 1799-1800, certo si trattò di «diverso esiglio», ma non certo d’«illacrimata sepoltura».

Per un nuovo approccio metodologico: lo studio delle naturalizzazioni agli albori della Restaurazione

A parte i singoli casi sin qui citati, una conferma fra le più attendibili dell’importanza della continuazione di tale soggiorno è data, sul piano prettamente quantitativo, dalla consistenza dei dossier di naturalizzazione degli italiani che, a partire dall’autunno del 1814, chiesero di divenire francesi sfruttando una legge, ratificata il 14 ottobre, che consentiva tale naturalizzazione a condizione, una volta compiuto il ventunesimo anno di età, di aver risieduto in Francia da almeno dieci anni e di effettuare un’esplicita dichiarazione delle proprie intenzioni. Tale legge mirava ad apportare soluzioni giuridiche agli stravolgimenti, ormai irreversibili, della stagione rivoluzionario-napoleonica e soprattutto a risolvere la situazione di stallo di quelle settimane, fattasi sempre più ingarbugliata dopo che il Trattato di Parigi firmato il 30 maggio, imponendo alla Francia un ritorno ai confini della fase precedente il 1792, aveva non solo cancellato le recenti conquiste militari, ma soprattutto segnato il primo grande caso di denaturalizzazione collettiva. Quegli accordi, infatti, avevano posto in una situazione di grande incertezza gran parte di quegli stranieri presenti sul territorio esagonale provenienti dagli ormai soppressi dipartimenti francesi oltreconfine, ossia da quei territori a lungo parte integrante dell’Impero, ma nel frattempo ritornati sotto la giurisdizione delle vecchie monarchie20.

Più che stimolare una migrazione successiva, dunque, il provvedimento del 14 ottobre regolamentava, nel nuovo ordine di cose, un contatto già verificatosi nella stagione precedente, in tal modo ponendo le basi per uno studio che, oggi, può dar modo non solo di ottenere una generale mappatura della popolazione italiana residente in Francia agli albori della Restaurazione, ma anche di raccogliere informazioni interessanti sulla mobilità in direzione francese di cui furono protagonisti migliaia di uomini negli anni in cui l’Europa intera fu sconvolta prima dalla tormenta rivoluzionaria e poi dall’apogeo imperiale. Uno studio, questo, che dunque sul piano metodologico risponde alla citata necessità di ampliare la gamma dei documenti oggetto d’analisi e di rivedere l’approccio all’indagine sull’esilio, consentendo in tal modo di prendere in considerazione fonti che riguardano coloro i quali tendono più a stabilizzarsi nel nuovo contesto che a rientrare in patria.

Infatti, i dossier di naturalizzazione conservati nel fondo BB/11 degli Archives Nationales possono contenere, per ogni singolo straniero naturalizzato, oltre alla citata dichiarazione, anche incartamenti vari (rapporti ministeriali, raccomandazioni di riconosciute personalità e spontanee petizioni dei diretti interessati) particolarmente utili ad ottenere notizie riguardanti il loro soggiorno nella Francia rivoluzionario-napoleonica che sarebbero altrimenti difficilmente reperibili, quali l’anno di arrivo, la città di residenza, gli ambienti sociali frequentati e l’evoluzione della carriera. Il tutto a dispetto di una non condivisibile marginalizzazione di queste fonti da parte degli attuali studi sull’esilio politico, che, come detto, ci sembrano troppo appiattiti su una lettura di tale soggiorno all’estero quale mera parentesi propedeutica al ritorno in patria, quale fase tutta radicalmente animata da propositi patriottici e scarsamente caratterizzata dall’interazione con le istituzioni del luogo di arrivo.

E così, dei 1600 cittadini nati nei territori della Penisola che fra 1814 e 1820 chiesero la naturalizzazione francese (dato già di per sè alquanto indicativo della consistenza del contatto degli italiani con la Francia napoleonica), secondo un’analisi effettuata sul 25% del totale, circa un quarto dei naturalizzati era giunto Oltralpe nel biennio 1799-1800, ossia nella fase immediatamente successiva al crollo delle “repubbliche sorelle”, a conferma ulteriore – e questa volta tutta quantitativa – di come non sempre l’esilio politico avviatosi a cavallo fra i due secoli si fosse poi concluso con il rientro in patria.

Interessanti, poi, ci sembrano le informazioni relative alla dislocazione spaziale di tali individui nei territori del paese d’arrivo. Agli albori della Restaurazione, un terzo dei naturalizzati italiani presenti nell’Esagono risiedeva nel dipartimento della Seine, e di questi, a voler essere ancor più precisi, tutti avevano domicilio a Parigi, a conferma di una centralità indiscussa della ville lumière quale luogo di attrazione dei cittadini stranieri. Per il resto, a fronte di una generale dispersione territoriale che faceva registrare in ben 36 dei 96 dipartimenti metropolitani totali una presenza di italiani inferiore al 2%, oltre alla capitale l’altro grande polo d’attrazione era costituito dalla zona del sud-est, in cui tuttavia, più che i dipartimenti trasfrontalieri alpini a primeggiare erano quelli della costa azzurra (ossia Var e Bouches-du-Rhône), seguiti di poco dall’Isère ed a maggiore distanza dalla Savoie. Da segnalare, inoltre, la generale alta concentrazione urbana, in quanto oltre alla citata centralità parigina, anche per gli altri dipartimenti a più elevanta presenza italiana a dominare erano di gran lunga le città principali: Marsiglia per le Bouches-du-Rhône, Tolone per il Var, Grenoble per l’Isère e Chambéry per la Savoie.

Infine, quanto alle categorie professionali di tali individui, va segnalato che, a differenza dei cittadini di altre nazionalità naturalizzati francesi nello stesso periodo (soprattutto prussiani e belgi21), per quanto riguarda gli italiani scarsa o nulla fu la presenza di artigiani e modesta quella dei liberi professionisti, mentre davvero imponente risulta quella dei militari, seguita poi da quella dei funzionari amministrativi a cui vanno anche aggiunti gli uomini con funzioni politico-diplomatiche (principalmente ex deputati del Corpo legislativo, ma in alcuni casi anche sindaci) e quelli con ruoli tecnici (ingegneri e geometri operanti nel corpo di Ponti e Strade). Dati, questi, che attestano come negli anni napoleonici il contatto degli italiani con la Francia avvenne principalmente non tanto mediante singole attività produttive, quanto nelle ed attraverso le istituzioni dello Stato.

Conclusioni: un ritorno davvero voluto?

La presenza dei rifugiati italiani nelle istituzioni della Francia napoleonica si manifestò non solo per mezzo di ruoli amministrativi e militari, ma anche attraverso la costante frequentazione a quegli istituti di formazione (soprattutto di natura scientifica) di cui Parigi al tempo abbondava. Frequentazione, questa, che avrebbe permesso loro di trasformare il forzato esilio in una straordinaria occasione di nuove conoscenze professionali e di ulteriore crescita culturale, non mancando poi d’innescare, soprattutto nei casi del ritorno in patria, rilevanti conseguenze nello scenario culturale italiano. Ad esempio, il napoletano Nicola Basti fu fra i più assidui allievi dei corsi tenuti dall’abbé Sicard nella scuola per sordo-muti sita in rue Saint-Jacques, in ciò incentivato dal «désir d’apprendre la méthode de l’instruction des sourds-muets» e soprattutto dall’«espérance de propager cette méthode en Italie, où elle est presque inconnue»22. Il piemontese Michele Buniva, invece, prima di rientrare come professore di medicina all’Università di Torino frequentò la prestigiosa scuola veterinaria della Maison d’Alfort23.

Tuttavia, se l’insegnamento appreso negli anni dell’esilio si sarebbe rilevato particolarmente importante in caso di rientro – perché avrebbe dato al diretto interessato strumenti e conoscenze utili per l’ottenimento di nuovi incarichi in patria e perché avrebbe incentivato il rafforzamento dei rapporti culturali fra i due paesi –, va detto anche che, contrariamente a quanto spesso si tende a credere, non sempre il ritorno, anche quando avvenne, fu voluto. Esso, infatti, non è da intendersi automaticamente come la realizzazione dell’atteso miraggio di porre fine alla sofferta permanenza all’estero, ma spesso, invece, si rivelò più imposto dalle istituzioni napoleoniche che richiesto dai singoli rifugiati. E tale imposizione, è bene precisarlo, era dovuta a ragioni non di ordine pubblico, bensì di politica culturale, in quanto rispondeva alla volontà di diffondere le moderne tecniche scientifiche anche oltre i confini dell’Esagono e di farlo, per l’appunto, attraverso quegli esuli che tali nuove dottrine avevano avuto modo di conoscere proprio nel corso del loro soggiorno a Parigi.

Così, in questa sorta di ribaltamento del valore dell’esilio che da esperienza forzata diveniva una grande opportunità di formazione, anche il ritorno era spesso concepito più come un dovere morale, più come un’imposizione esterna, che come il raggiungimento del sogno tanto ambito. Ad esempio, nel 1808, dopo anni di studio condotti al Collège de France ed al Museum d’histoire naturelle, un altro esule politico del 1799 quale lo scienziato Giosué Sangiovanni si vedeva letteralmente costretto a far ritorno nella natìa Napoli a causa delle pressioni del maestro Jean-Baptiste Lamarck, il quale sperava di trovare nell’allievo un valido strumento di diffusione delle proprie teorie nel Mezzogiorno d’Italia24. Proprio della profonda sofferenza provata nel giorno della partenza lo stesso Sangiovanni dava testimonianza in pagine molto belle del suo diario, nelle quali, tra l’altro, ribadiva la profonda riconoscenza per quel contesto parigino che lo aveva accolto, che lo aveva formato alle nuove dottrine scientifiche, e che, tuttavia, mai lo aveva distolto da quei principi patriottici che anni prima avevano causato l’avvio del suo esilio:

Ecco giunto per me il giorno dell’estremo dolore. Sono partito da Parigi alle 11 del mattino, fra le lagrime, gli affettuosi abbracci e gli ultimi adieux delle famiglie a me più care. […] In tal modo ho abbandonato la città ove ho dimorato otto anni continui; ove ho passato il fiore della mia gioventù; ove ho appreso quelle conoscenze che indarno avrei ricercato altrove, e che mi sono state comunicate con amore paterno ed affettuoso dai miei illustri maestri; ove ho ricevuto i primi e ultimi germi della mia civilizzazione e della vera morale filantropica; ove i pregiudizii della mia prima educazione sono stati completamente svelti e rimpiazzati da principii di filantropìa e di generosa magnanimità di cuore; ove sono stato amato, considerato, stimato e protetto; ove, infine, mi si sono istillati nell’animo i principii della vera libertà sociale, che rende grandi i re e forti i cittadini, e quelli del sacro amor di patria e dell’amor nazionale, i quali soli rendon robusti, istruiti, indipendenti e celebri i popoli. Chi sa quante volte avrò a pentirmi del passo sconsiderato pel quale ora m’incamino! Passo male augurato, al quale mi ha indotto il solo amore della mia povera madre, e l’ubbidienza per riconoscenza pel mio vecchio e degno maestro Lamarck. Faccia il cielo che così non sia!25

1Agostino Bistarelli, Gli esuli del Risorgimento, Bologna, Il Mulino, 2011; Maurizio Isabella, Risorgimento in esilio. L’internazionale liberale e l’età delle rivoluzioni, Roma-Bari, Laterza, 2011.

2Alexander Von Humboldt, Vues des cordillères, et monuments des peuples de l’Amérique, Paris, Schoell, 1810.

3Nonostante lo spessore del profilo culturale di Ennio Quirino Visconti, una ricca ed aggiornata biografia sul suo conto continua a mancare, per questo ci si limita qui a segnalare l’interessante articolo di Daniela Gallo redatto per l’INHA (Institut national d’histoire de l’art): https://www.inha.fr/fr/ressources/publications/publications-numeriques/dictionnaire-critique-des-historiens-de-l-art/visconti-ennio-quirino.html.

4Archives Nationales de France (d’ora in poi ANF), BB/11, cart. 100/A.

5Sulle vicende della breve vita della Repubblica Romana si rimanda a David Armando – Massimo Cattaneo – Maria Pia Donato, Una rivoluzione difficile: la repubblica Romana del 1798-1799, Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2000.

6ANF, F/7, cart. 10866.

7A. De Francesco, Storie dell’Italia rivoluzionaria e napoleonica (1796-1814), Milano, Bruno Mondadori, 2016; Id., L’Italia di Bonaparte. Politica, statualità e nazione nella penisola tra due rivoluzioni. 1796-1821, Torino, Utet, 2011; Id., Rivoluzione e costituzioni. Saggi sul democratismo politico nell’Italia napoleonica. 1796-1821, Napoli, Esi, 1996.

8Umberto Carpi, Patrioti e napoleonici. Alle origini dell’identità nazionale, Pisa, Edizioni della Normale, 2013.

9Franco Venturi, L’Italia fuori d’Italia, in R. Romano – C. Vivanti (dir.), Storia d’Italia. vol. III. Dal primo Settecento all’Unità, Torino, Einaudi, 1973, p. 1166.

10In particolare, si fa qui implicito riferimento alla riflessione di Carpi sul pasaggio da «intellettuali rivoluzionari» ad «intellettuali funzionari» che è in U. Carpi, Patrioti e napoleonici, op. cit., p. 95.

11Anna Maria Rao, Esuli. L’emigrazione politica italiana in Francia (1792-1802), Napoli, Guida, 1992, p. 565.

12Fra gli intellettuali francesi a più diretto contatto con il mondo italiano in Francia del tempo era il giornalista, ed l’ex ambasciatore francese a Torino nella stagione direttoriale, Pierre-Louis Guinguené, per i cui rapporti con la cultura italiana si veda: Paolo Grossi, Pierre-Louis Guinguené, historien de la littérature italienne, Berna, Lang, 2006.

13Sulla letteratura italiana in Francia si veda soprattutto Laura Fournier-Finocchiaro, Les exilés politiques italiens, vecteurs et médiateurs de la langue et de la littérature italienne en France au XIXe siècle, in L. Fournier-Finocchiaro – C. Climaco (dir.), Les exilés politiques espagnols, italiens et portugais en France au XIXe siècle: questions et perspectives, Paris, L’Harmattan, 2017, pp. 121-144; Mariasilvia Tatti, Le tempeste della vita. La letteratura degli esuli italiani in Francia nel 1799, Parigi, Champion; Ead., Tra politica e letteratura: manifesti programmatici e linee editoriali dei giornali italiani a Parigi fra Triennio e Impero, «Franco-Italica», 11, 1997, pp. 143-168; Ead., Bohème letteraria italiana a Parigi all’inizio dell’Ottocento, in Italia e Italie. Immagini tra rivoluzione e Restaurazione, Roma, Bulzoni, 1999, pp. 139-160.

Per maggiori informazioni sui giornali italiani redatti nella Francia napoleonica, mi permetto di rinviare a P. Conte, Un journal «mal conçu et mal rédigé»: le Corriere d’Italia (1807-1808), ou comment relire les pratiques politiques des exilés italiens dans le Paris napoléonien, in «Laboratoire italien», n. 22, 2019, on-line su: http://journals.openedition.org/laboratoireitalien/3109; Id., Un periodico italiano nella Parigi napoleonica: il caso de La Domenica, fra classicismo letterario e rinnovamento politico, in «Rivista Storica Italiana», n. CXXX, 2018, pp. 409-436.

14Alexis-François Artaud de Montor, L’Enfer, poëme du Dante, traduit de l’italien, suivi de notes explicatives pour chaque chant, Paris, Smith-Schoell, 1812, p. XIV.

15Per la citazione e per altre informazioni circa l’operato medico di Lauberg in Francia, cfr. ANF, BB/11, cart. 97/A.

Più in generale, sulla sua biografia politica si veda: Benedetto Croce, La vita di un rivoluzionario: Carlo Lauberg, in Id., Vite di avventure di fede e di passione, Milano, Adelphi, 1989, pp. 365-437; Renata De Lorenzo, Accademismo e associazionismo tra “desideri” riformistici e “passioni” giacobine: Carlo Lauberg, in Ead., Un regno in bilico: uomini, eventi e luoghi nel Mezzogiorno preunitario, Rome, Carocci, 2001, pp. 17-37.

16Margherita Galante, Antonio Buttura e la cultura francese, Verona, QuiEdit, 2004.

17Archives du Ministère des Affaires Etrangères, Mémoire et documents, Italie, cart. 14, ff. 36-44.

18ANF, F/7, cart. 10831.

19Sul ruolo di Giovanni Antonio Galignani e della sua libreria a Parigi si vedano in particolare, oltre al più datato Giles Gaudard Barber, Galignani’s and the publication of English books in France, from 1800 to 1852, Londres, Bibliographical Society, 1961, gli studi di Diana Cooper-Richet, fra i quali segnaliamo: Galignani, Paris, Galignani, 1999; Presse en anglais et littérature, à Paris, dans la première moitié du XIXe siècle, in M.E. Thérenty – A. Vaillant (dir.) Presse et plumes. Journalisme et littérature au XIXe siècle, Paris, Nouveau Monde éditions, 2004, pp. 153-168 ; Les Galignani – libraires-éditeurs-hommes de presse à Paris – artisans d’une «Entente cordiale» culturelle, in D. Cooper-Richet – M. Rapoport (dir.), Cent ans de relations culturelles franco-britanniques, Paris, Créaphis, 2006, pp. 39-51.

20Per un’inquadratura generale della gestione dei dispositivi di naturalizzazione in Francia dei primi due decenni del XIX secolo, con particolare riferimento alla legge del 1814, si veda: Patrick Weil, Qu’est-ce qu’un Français ? Histoire de la nationalité française depuis la Révolution, Paris, Gallimard, 2002, pp. 37-63. Più generale, sull’accoglienza in Francia degli esuli politici durante la prima metà del secolo: Delphine Diaz, Un asile pour tous les peuples ? Exilés et réfugiés étrangers en France au cours du premier XIXe siècle, Paris, Colin, 2014.

21Si veda a tal riguardo Karin Dietrich-Chénel – Marie-Héméne Varnier, Intégration d’étrangers en France par naturalisation ou admission à domicile de 1790/1814 au 10 mai 1871. Approche méthodologiques et analyses, tesi realizzata sotto la direzione di Jacques Grandjonc e discussa all’Université de Province Aix-Marseille, 1994.

22ANF, cart. 10843/A.

23ANF, cart. 10843/D.

24Il percorso professionale di Sangiovanni è stato di recente ben illustrato da Fabio D’Angelo, Dal Regno di Napoli alla Francia. Viaggi ed esilio tra Sette e Ottocento, Napoli, Dante e Descartes, 2018, pp. 121-130, 202-212.

25Giosué Sangiovanni, Diari (1800-1808), a cura di Vittorio Martucci, Napoli, ISPF Lab, 2014, pp. 253-253.