Tito Menzani
Ad oltre trent’anni dalla legge 180, che sancì idealmente la fine dei manicomi in Italia, la storiografia ha ripreso e rinverdito un filone di ricerche imperniato sulla salute mentale nelle civiltà occidentali contemporanee. Ad una pluralità di approcci disciplinari – storico sociali innanzi tutto, ma con significativi apporti da parte della psichiatria, della sociologia, dell’antropologia – è corrisposta una differente lettura dei medesimi fenomeni, sulla base di interpretazioni diverse. Un aspetto, però, sembra essere condiviso da tutti gli studiosi che si sono occupati del tema, e cioè la centralità di Franco Basaglia e del movimento da lui animato, che ha letteralmente capovolto l’idea di cosa fosse la pazzia, decostruito il concetto di manicomio e riconsegnato alla vita civile migliaia e migliaia di disagiati psichici, altrimenti segregati all’interno di istituti più di detenzione che di effettiva cura delle malattie mentali.
Il volume di Valeria Paola Babini – professore associato di storia della scienza e storia della psicologia all’Università di Bologna, che da anni si occupa di questi temi – riconosce l’importanza di Basaglia fin dal titolo, Liberi tutti, nonostante il libro non insista esclusivamente su questa esperienza, ma ripercorra tutto il tragitto novecentesco dei manicomi italiani. Ma viene anche sottolineato come lo psichiatra veneziano e i suoi vari collaboratori e sostenitori rappresentassero solamente una compente del più vasto fronte di critica dell’ospedale psichiatrico e delle terapie in esso applicate (o non applicate).
In quella che l’autrice chiama In vece di una introduzione, è chiarito anche un altro aspetto che nel libro appare centrale, ossia il ruolo dell’opinione pubblica. Per anni il manicomio aveva assolto all’oscura funzione di sottrarre alla vita civile coloro che apparentemente non erano in grado di viverla, i quali, di fatto, venivano quindi isolati in condizioni deprecabili. La transizione dall’idea che il manicomio fosse un luogo di cura e di preservamento della società “normale” dai pericoli della follia a quella che rappresentasse un catalizzatore della malattia mentale attraverso i propri orrori è stata la chiave che ha aperto le porte dell’Istituto di Trieste il 21 aprile del 1980, primo caso in Italia di soppressione di un ospedale psichiatrico.
Attraverso fonti a stampa, letteratura grigia e letteratura scientifica, l’autrice racconta una storia imperniata sulla follia, in cui il confine fra salute e insania è spesso labile, almeno se giudicato con i parametri odierni. La sperimentazione dell’elettroshock, ad esempio, prima sui cani, poi sui maiali ed infine sui malati, richiama inevitabilmente ad una sorta di rapporto tra vittima (l’epilettico) e carnefice (lo psichiatra), che appare ben lontana dal tradizionale rapporto tra paziente e medico.
L’orrore è appunto uno degli ingredienti principali del libro, che racconta la quotidianità intollerabile che per decenni si è celata dietro i muri dei manicomi, fatta di soprusi, prevaricazioni, ingiustizie, fame, torture, stupri e umiliazioni, e il cui contorno è stata a lungo l’algida analisi scientifica, che si è sostanziata nei resoconti pedissequi dei medici e dei loro assistenti.
Le “vittime” del manicomio provenivano dalle sfere sociali più diverse, anche se molto spesso le condizioni di indigenza del malato coincidevano con l’impossibilità della famiglia di accollarsi la sua assistenza o anche il suo semplice sostentamento, per cui gli ospedali psichiatrici finivano per ospitare soprattutto cittadini di condizione sociale medio-bassa. Spiccano, però, due categorie in particolare, e cioè i militari della Grande Guerra, sopravvissuti alla trincea seppur a costo del proprio equilibrio mentale, e i civili che nel corso della seconda guerra mondiale non ressero allo stress dei bombardamenti e di altri disagi. Per molti di costoro, il manicomio significò un’esperienza ancor peggiore e più traumatica della guerra.
Le varie voci che nel secondo Novecento iniziarono a levarsi contro l’istituzione manicomiale o contro singoli aspetti del suo funzionamento incrinarono la fiducia che molti nutrivano nei confronti di un organismo apparentemente deputato alle cure e alla sicurezza sociale. Oltre alle testimonianze e alle descrizioni sul funzionamento dei manicomi, ebbero un ruolo decisivo i reportages dall’interno degli ospedali psichiatrici, che scossero l’opinione pubblica con una serie di immagini che richiamavano da vicino la recente esperienza dei lager. Fu quella una delle molle che consentì alla corrente basagliana di avere un forte seguito non solo in ambito accademico o comunque scientifico, ma anche fra i comuni cittadini.
In sintesi, il volume di Valeria Paola Babini non rivoluziona la storiografia sul tema né aggiunge elementi di assoluta novità – se si eccettua la grande importanza data alla psichiatria degli anni Cinquanta –, ma palesa e sottolinea il ruolo dell’“orrore” non solamente come elemento ricorrente nella storia dei singoli manicomi, ma come grimaldello utilizzato per dare battaglia all’istituzione manicomiale. Appare molto opportuno, in questo senso, il bell’inserto iconografico, che correda la ricerca. Effettivamente, poi, mancava una ricostruzione storica del percorso complessivo della psichiatria italiana del Novecento, capace – come fa l’autrice – di coniugare gli aspetti per così dire “politici” con le ragioni scientifiche.