Sebastiano Marco Ciccio’
Abstract
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Una precedente versione di questo articolo è stata presentata al 10° Congresso Annuale della Mediterranean Studies Association, Evora (Portogallo), 30 maggio-2 giugno 2007.
Un viaggio per mare segna l’inizio di molte storie di emigrazione. Tra il 1876 e il 1976, più di 11 milioni di italiani attraversarono l’oceano Atlantico alla ricerca di lavoro e di una vita migliore. Nel primo quindicennio del XX secolo, quando i flussi transoceanici raggiunsero l’apice, una media di 300.000 persone partiva annualmente dai quattro porti d’imbarco autorizzati di Genova, Napoli, Palermo e Messina (Commissariato generale dell’emigrazione 1926).
Tra i luoghi familiari della sofferenza e l’arrivo nella terra sconosciuta della speranza, giaceva la vastità del mare. Pontos è il più antico degli dei ellenici del mare e con questa parola i greci indicavano il mare aperto e inesplorato, distinguendolo da thalassa, il mare vicino alla costa nel quale sapevano navigare. Come un ponte il mare unisce popoli, civiltà e culture differenti, il vecchio e il nuovo mondo.
Le condizioni dell’emigrante alla partenza (età, cultura, motivazioni) influivano sulle sensazioni suscitate dall’attraversamento dell’oceano. Il viaggio assumeva spesso i tratti di un’esperienza indimenticabile, una sorta di rigenerazione prima di entrare in una realtà completamente nuova.
Un sentimento nuovo e piacevolissimo mi riempiva l’anima, che non si può provare in nessun luogo, in nessuna condizione al mondo, fuorché sopra un piroscafo che attraversi l’oceano: il sentimento d’un’assoluta libertà dello spirito […] Venti giorni di orizzonte senza limiti, di meditazione senza disturbo, di pace senza timore, di ozio senza rimorso. Un lungo volo senza fatica a traverso un deserto sterminato, davanti a uno spettacolo sublime, dentro un’aria purissima, verso un mondo sconosciuto, in mezzo a gente che non mi conosce (De Amicis 2004, 18).
Nel corso del Novecento, divennero sempre più numerosi gli emigranti che varcavano l’oceano anche più volte in un anno, per loro, ovviamente, il viaggio perdeva ogni carattere di esperienza memorabile e diventava una pratica quasi consuetudinaria. Per altri, poi, il viaggio restò sempre una vicenda episodica e marginale dell’esperienza migratoria che sarebbe realmente iniziata solo con l’arrivo nel paese di destinazione, di conseguenza lo spazio che la traversata occupa nella loro memoria, tranne che non fossero successi fatti particolarmente drammatici, è generalmente molto limitato (Franzina 2004; Molinari 2007).
Partito dal piccolo villaggio di Bisacquino, vicino Palermo, per andare in America insieme ai genitori, il regista Frank Capra celebrò il sesto compleanno in una spaventosa tempesta atlantica. Capra, in un intervista rilasciata a Vito Zagarrio (1995, 5), ricordava l’oceano dicendo: “Era una cosa così meravigliosa che tutta la memoria precedente era scomparsa. Quello è il momento originario. Da lì parte la mia memoria. [I ricordi] partono dalla nave, prima della grande nave non ricordo niente”.
La lunghezza e la monotonia del viaggio rendevano più intensi il dolore per il distacco e la nostalgia di casa. A bordo della nave che lo portava da Genova in Argentina alla ricerca della madre emigrata qualche anno prima, Marco, giovane protagonista del racconto Dagli Appennini alle Ande, alternava momenti di sofferenza e di paura per il mare agitato a giornate di caldo insopportabile e noia infinita: “E il viaggio non finiva mai: mare e cielo, cielo e mare, oggi come ieri, domani come oggi, – ancora, – sempre, eternamente” (De Amicis 1994, 120).
I poeti popolari del Meridione italiano (Vigo 1970) chiamano il momento della partenza dell’emigrante spartenza (separazione), per indicare un distacco violento e doloroso. Il contadino siciliano Tommaso Bordonaro, emigrato negli Stati Uniti, (1991, 46) intitola La spartenza la propria autobiografia scritta “in una lingua siculo-americana”, e ricorda: “Dolorosa e straziande è stata la spartenza”.
Durante il viaggio, gli emigranti però spesso non avevano tanto tempo per la meraviglia, la noia o la nostalgia. Il mal di mare, l’indifferenza e gli abusi dell’equipaggio, la paura dei naufragi e delle malattie contagiose, la possibilità di essere sbarcati in un paese diverso da quello previsto, erano più dolorosi della solitudine e delle preoccupazioni per un futuro incerto. Gli italiani erano privi di un’efficace protezione da parte della legge e le speculazioni delle compagnie di navigazione potevano trasformare il viaggio transoceanico in un’esperienza altamente rischiosa.
Il trasporto di emigranti fu un grosso affare per la marina mercantile italiana e consentì ai porti italiani di inserirsi nel mercato internazionale dei trasporti marittimi dove, fino ad allora, avevano occupato una posizione del tutto marginale. Di questa condizione erano causa il ritardo con cui era avvenuto il passaggio dalla vela al vapore, le insufficienze strutturali dei porti, degli arsenali e dei bacini di carenaggio, la fragilità economica dei ceti amatoriali. Subito dopo l’Unità, il rapporto vela-vapore era di 1:13 e la portata media del naviglio era di 36 tonnellate; nello stesso periodo, in Inghilterra il rapporto era sceso a 1:4, con una portata media di 213 tonnellate. Alla vigilia della prima guerra mondiale, la flotta italiana in servizio di emigrazione comprendeva oltre quaranta grandi piroscafi, per un tonnellaggio complessivo di 250.000 tonnellate, essa però riusciva a coprire meno del 50% del traffico complessivo (Briani 1970).
Il trasporto di passeggeri emigranti rappresentò sempre:
Una voce di entrata relativamente protetta, congiunturalmente stabile e, anzi, quasi “anticiclica” rispetto agli alti e bassi del trasporto merci attribuibili alle fluttuazioni dell’import-export. In definitiva gli incassi del trasporto di emigrati coprirono i vuoti di incasso per trasporto merci che si aprirono lungo le tratte di viaggio e durante le fasi in cui le caratteristiche e lo stadio dello sviluppo economico italiano imponevano al trasporto marittimo nazionale scarsi flussi, viaggi a vuoto e comunque merci “povere” e peso-perdenti (Sori 1979, 315-316).
Lo sviluppo del trasporto marittimo e il continuo ribasso delle tariffe trasformarono “in esodo transoceanico la mobilità continentale” (Molinari 2001, 239). Senza un forte e rigoroso controllo da parte dello Stato, le compagnie di navigazione poterono mirare ai più lauti guadagni con un minimo di investimenti.
Nella propria autobiografia, Frank Capra (1971, 5) descrive il viaggio in America a bordo del piroscafo Germania come “tredici giorni di miseria e fetore, imprigionati in un oscuro steerage1 affollato da emigranti terrorizzati che piangevano e vomitavano”.
Nel 1894, Edmondo De Amicis viaggiò da Genova in Argentina a bordo del piroscafo Nord America insieme a 1600 emigranti italiani. Pubblicato nel 1889, il romanzo Sull’Oceano, che racconta i ventidue giorni di quel viaggio, ottenne uno straordinario successo e divenne un modello obbligato per coloro che si accingevano a scrivere della traversata transoceanica. Sia nelle situazioni che nella scelta lessicale, lo scrittore ligure utilizza l’immagine classica dell’inferno dantesco per descrivere la condizione di estrema sofferenza dei passeggeri di terza classe. Questo modello letterario è stato spesso adottato dagli stessi emigranti in riferimento alla propria esperienza: “Se Dante avesse conosciuto ciò ch’erano le terze classi de’ transatlantici nel 1885, per certo ne avrebbe descritta una e l’avrebbe allogata nell’inferno e vi avrebbe inchiodato i peccatori de’ più neri peccati” (Guglieri 1913, 14)2.
Nelle parole di De Amicis (2004, 219-220), la nave, con il suo carico di risentimento per le presenti ingiustizie economiche e sociali, appare come un piccolo Stato: l’aristocrazia viaggia in prima classe, la borghesia in seconda, la gente comune alloggia in terza classe, il comandante e gli ufficiali rappresentano il governo e la magistratura:
E gli emigranti affollati verso poppa guardavano le porte del salone e i passeggeri di prima con un occhio più torvo del consueto […] Perché, insomma, eravamo noi che rubavamo loro tanta parte del piroscafo, ingombrando noi soli, tra men di cento, quasi altrettanto spazio di quello che occupavan essi, che erano un popolo […] Essi erano stufi alla fine di quel lungo contatto con l’agiatezza spensierata, di sentirsi come pigiati nella propria miseria, dentro a quella piccionaia piena di stracci e di cattivi odori.
De Amicis (2004, 131-132) è infine molto critico nei confronti della attuale legge che regola il trasporto dei passeggeri:
Eppure, ci dicevano, non v’eran più passeggeri di quanti la legge consente che s’imbarchino in relazione con lo spazio. Eh! che m’importa se non si respira! Ha torto la legge. Essa permette che si occupi sui piroscafi italiani uno spazio maggiore quasi d’un terzo di quello che è concesso sui piroscafi inglesi e americani […] E dican quel che vogliono gli igienisti che han fissato il numero necessario dei metri cubi d’aria: la carne umana è troppo ammassata, e che una volta si facesse peggio, non scusa: oggi e una cosa che fa compassione e muove a sdegno.
I giornali sanitari, le cartelle cliniche dei passeggeri ricoverati nelle infermerie di bordo, le relazioni degli ispettori e i reportage dei giornalisti (Missori 1973; Molinari 1988), le lettere, i diari e, più tardi, i racconti autobiografici degli stessi emigranti convergono nel disegnare un quadro desolante. Gli emigranti erano ammassati in vecchie e insicure carcasse, riadattate per quello speciale trasporto, o erano confinati negli spazi più bassi in navi a servizio misto per passeggeri di classe ed emigranti. Le compagnie di navigazione non differenziavano chiaramente la tipologia delle proprie navi e, di solito, trasportavano i passeggeri e le merci negli stessi spazi a viaggi alterni. Venivano montati dei tramezzi temporanei per permettere la sistemazione degli emigranti e, subito dopo lo sbarco, le partizioni venivano rimosse e la nave era preparata per ritornare in Europa come mercantile. Le compagnie trovavano così negli emigranti “un ottimo carico integrativo, come saldo tra due diversi valori specifici dei volumi fisici di import ed export” (Sori 1979, 294).
I passeggeri di terza classe erano divisi per sesso e sistemati in differenti compartimenti: la parte anteriore della nave era riservata agli uomini soli, quella centrale alle coppie sposate, le donne sole alloggiavano nella parte posteriore. Non esistevano sale da pranzo separate e i pasti erano distribuiti negli spazi comuni di ciascun compartimento per ranci, cioè per gruppi di sei persone, una delle quali a turno era incaricata del ritiro delle vivande dalla cucina.
Il viaggio verso il nuovo mondo durava dalle due alle quattro settimane, in base alle condizioni del mare e al carico; durante questo periodo, l’affollamento e la sporcizia dei dormitori diventavano tali da spingere l’igienista Vittorio Cantù (1895, 54) a scrivere che “l’impressione di disgustosa ripugnanza che si riceve scendendo in una stiva dove hanno dormito gli emigranti è tale che, provata una volta sola non si dimentica più”.
A bordo respirare era quasi impossibile, l’aria era piena del fumo e dei vapori delle macchine, i letti erano sacchi di paglia increspati e maleodoranti sistemati in anguste cuccette di legno. Per fuggire da questi miserevoli ambienti, appena possibile, tutti salivano sul ponte superiore e sedevano all’aperto. La durezza del viaggio peggiorava le condizioni fisiche dei passeggeri che, in molti casi, erano scarse già prima della partenza.
Alla fine dell’Ottocento, essendo il traffico transoceanico in rapidissima crescita, le strutture e il personale dei porti erano del tutto insufficienti e inadeguati. La ressa sui moli rendeva la visita medica prima dell’imbarco una semplice formalità e non era raro il caso che fossero ammessi a bordo emigranti che avessero malattie epidemiche, come tifo, malaria, tracoma e tubercolosi. A causa della mancanza di rigore dei medici di porto, il governo degli Stati Uniti impose la presenza di un medico di sua fiducia, la cui severità divenne un “vero e proprio incubo per gli emigranti” (Molinari 2005, 69).
La prima legge organica italiana sull’emigrazione del 19013 migliorò la situazione solo parzialmente. La legge, integrata negli anni immediatamente successivi da una serie di provvedimenti, istituiva ispettorati di emigrazione in ciascun porto d’imbarco e commissari viaggianti da scegliersi tra gli ufficiali medici della Marina. I commissari erano responsabili della buona salute dei passeggeri e dell’equipaggio ed erano incaricati di verificare che la nave possedesse i requisiti di igiene e sicurezza. I medici civili, stipendiati dalle compagnie, erano di nomina ministeriale e dovevano possedere una speciale licenza concessa dalla Direzione generale della Sanità pubblica; essi erano alle dipendenze del commissario, prestavano gratuitamente assistenza medica e chirurgica e avevano l’obbligo di compilare il giornale sanitario di bordo. La legge prevedeva infine la presenza obbligatoria di un’infermeria con un’adeguata fornitura di apparecchiature e medicinali.
Lo Stato avrebbe dato la patente di vettore solo alle compagnie che impiegavano piroscafi in ottime condizioni; il regolamento stabiliva la velocità minima, le dimensioni e il corredo delle cuccette, il numero massimo di persone per ciascun dormitorio in base al cubaggio, la modalità di installazione dei boccaporti, la quantità e la composizione dei pasti e la razione giornaliera di acqua. La nomina di una commissione arbitrale con sede in ogni provincia dava agli emigranti la possibilità di intentare azioni legali nei riguardi delle compagnie per risarcimento danni e per qualsiasi altra controversia.
La legge del 1901, nel definire l’ordinamento e l’assetto interno dei piroscafi, manteneva però in vigore normative che risalivano al codice della Marina mercantile del 1879 e a quello di sanità marittima del 1895, come se le dimensioni dei flussi migratori fossero rimaste inalterate nel tempo (Molinari 2002). Inoltre, a causa di difficoltà economiche e politiche e per le pressioni delle compagnie di navigazione, il complesso sistema della legge rimase per gran parte inattuato.
Medici e assistenti sociali continuavano a lamentare l’inadeguatezza della maggior parte delle navi transoceaniche a garantire ai passeggeri i requisiti minimi di igiene e sicurezza. La terza classe era ancora priva di bagni e docce e di un posto dove si potessero consumare i pasti, lo spazio era troppo ridotto e, quando il mare era ingrossato, gli emigranti erano costretti a restare tutto il tempo nei dormitori rendendo scarsamente efficace la pulizia giornaliera prevista dal regolamento; mancavano locali di isolamento dove ricoverare gli infermi affetti da malattie contagiose.
Il giornalista e missionario Giovanni Preziosi (1907, 56-57) denunciava che:
È sempre uno scandalo il vedere come sono accumulati gli emigranti a bordo dei vapori in partenza, sdraiati per terra ed ammonticchiati in coperta per settimane intere, senza una scranna per potersi sedere; nei giorni di pioggia addossati sotto coverta, con aria rarefatta pregna di miasmi; nelle ore di pranzo buttati per terra, senza sedie e senza tavole, con i piatti in mano, costretti a compiere ogni più elementare servigio, con un personale di servizio che non ha esperienza ed attitudine sufficiente, raccogliticcio nella parte rilevante, il quale è in genere privo della più elementare educazione ed urbanità. Anche le tabelle dei viveri, specie sui bastimenti di bandiera estera, non sono sempre i più logici, e la pulizia non è troppo rispettata.
Anche se incomplete4, le statistiche sanitarie raccolte dal Commissariato generale per l’emigrazione mostrano che i piroscafi che trasportavano in America gli emigranti italiani potevano trasformarsi in dei veri ospedali galleggianti o – come furono definiti da un giornalista (Varaldo 1916)5 – in “navi di Lazzaro”:
Oggi, a differenza di un tempo, i bagni, le lavature, le strigliature sono più frequenti, le visite più severe, le indagini più accurate e il servizio procede più preciso, ma la nave di Lazzaro è sempre lì con l’apparenza negriera e gli occhi miserabili che attendono sono sempre in massima parte spauriti per quanto già rassegnati all’ignoto.
Quando durante il viaggio scoppiava un’epidemia, la difficile situazione sanitaria a bordo diventava drammatica. Il sovraffollamento, la cattiva ventilazione dei dormitori e la scarsità delle attrezzature mediche favorivano la rapida diffusione delle malattie. La malaria e il morbillo avevano il più alto tasso di morbosità e, insieme alle malattie broncopolmonari e gastrointestinali, costituivano la principale causa di infermità e morte dei bambini. L’emergenza sanitaria trasformava normali patologie infantili in pericolosissime epidemie.
Nel periodo 1903-1913, il commissariato registrò 2027 casi di malaria e 3052 casi di morbillo tra gli emigranti diretti in America, ma, come prova dei miglioramenti ottenuti dalla nuova legge, solo rispettivamente 674 e 1082 casi nei dodici anni successivi. La notevole differenza tra i tassi di morbosità registrati nelle correnti dirette al Nord rispetto a quelle dirette verso il Sud America (rispettivamente 9,6 e 19,9) è dovuta, oltre alla maggiore durata della traversata, al fatto che nell’America meridionale si dirigevano anche emigranti che probabilmente sarebbero stati respinti dagli Stati Uniti (Commissariato generale dell’emigrazione 1926).
Non era raro che una donna partorisse durante il viaggio e questo era molto pericoloso sia per le madri che per i nascituri. Nel primo decennio del Novecento, il commissariato registrò una percentuale di decessi tra i minori di dieci anni doppia rispetto agli adulti. Nella primavera del 1907 – per ricordare solo un caso – circa un terzo dei bambini imbarcati sul piroscafo Ravenna, diretto in Argentina, si ammalarono a causa di un’epidemia di morbillo e degli 80 decessi complessivi, 65 furono di neonati e bambini (Molinari 1988).
Durante la traversata, i morti erano, di consuetudine, seppelliti in mare. La morte sull’oceano e la sepoltura nelle sue acque, lontano dal pianto e dal conforto dei familiari, costituivano “l’acme di quell’‘angoscia territoriale’ che attanaglia l’emigrante e che si proietta anche nella comunità d’origine e che nasce dalla consapevolezza di sentirsi proiettati in un altrove spaziale, ma anche temporale, mentale, culturale” (Martelli 2001a, 435). Una donna ricorda il dolore per la morte della figlia di un anno e mezzo:
Me la strapparono dalle braccia, la fasciarono stretta stretta da capo a piedi e le legarono una grossa pietra al collo; di notte, alle due di notte, con quelle onde così nere, la calarono giù in mare. Io urlavo, urlavo non volevo staccarmi da lei, volevo annegare con la mia piccola […] Non volevo lasciarla sola, povera bambina, invece mi tennero indietro mentre la buttavano giù. Quel tonfo in acqua, non posso dimenticarlo (Stella 2005, 23).
I frequenti incidenti, di cui per lo più erano vittime ancora i bambini, dimostrano la scarsa sicurezza delle imbarcazioni; le relazioni mediche segnalavano quotidianamente di bambini che cadevano dalle scalette, sbattevano la testa contro le porte, erano colpiti dalla caduta di oggetti dai ponti superiori o piombati a terra mentre dormivano nei piani più alti della cuccetta. La scarsa stabilità della nave causava il mal di mare che poteva ulteriormente peggiorare le condizioni degli infermi.
Per quanto tremende potessero essere le condizioni di viaggio, molto spesso però la principale preoccupazione dei passeggeri era che la nave sarebbe affondata. Gli emigranti italiani furono coinvolti in decine di naufragi. Ad esempio quello del piroscafo Utopia nel 1891 che provocò 576 morti, dell’Ortigia (249 morti) e del Sudamerica (80 morti) nel 1880, del Bourgogne (549 morti) nel 1898, del Sirio (292 morti) nel 1906, del Principessa Mafalda nel 1927 dove morirono 385 persone.
Durante una tempesta, l’unica cosa che gli emigranti riuscivano a fare era stare seduti sul pavimento, tenendosi in equilibrio l’un l’altro, e pregare. Nei momenti peggiori del viaggio, per esorcizzare la paura, essi cantavano Mamma mia dammi cento lire, una triste canzone che racconta di una giovane ragazza che chiede alla madre cento lire per andare in America. La madre è contraria, spaventata da ciò che le sarebbe potuto accadere in una terra strana e distante, ma la ragazza parte ugualmente, muore, quando la nave affonda nell’oceano Atlantico, e viene divorata da una balena. Nelle memorie degli emigranti, i pochi momenti sereni vissuti a bordo durante la traversata sono legati alle canzoni e ai balli di gruppo. Con particolare piacere coloro che andavano nell’America meridionale ricordano la festa per il passaggio dell’equatore:
Io ero vestita da sirena, qualcuno da Nettuno, qualcuno da… vestiti di tante maniere, e poi per finire, ci sbattevano nella vasca, ci battezzavano con un secchiello pieno d’acqua in testa […] Eh, una festa bella! Ci davano da mangiare più bene e più tanto. Un po’ di musichetta, sempre nostra eh? Perché loro l’avevano la musichetta, in prima e in seconda, ma era un pianino, un violino, insomma poca roba. E la festa di Nettuno la ricordo perché avevamo anche le fotografie (Lupi 1981, 478).
Provenendo dalle regioni dell’interno, molti emigranti non avevano mai visto il mare e partivano con il terrore della grande distesa d’acqua; la loro angoscia era aumentata dai racconti dei compaesani scampati a un naufragio o dall’aver visto un impressionante ex voto lasciato nel vicino santuario. Con sentimenti misti di paura e meraviglia, lo scrittore italo-americano Pascal D’Angelo (1999, 45) partito dall’Abruzzo nel 1910, a 14 anni, descrive la prima vista del mare: “Eravamo appena usciti da una galleria, lanciati a tutta velocità verso la pianura campana. Un abbagliante luccichio dilagava tutto intorno e andava a perdersi ai confini del mondo. Sulle prime ebbi paura. Poi pensai: ‘Il mare! Quella deve essere la cosa che chiamano mare!’ E lo era”.
A partire dalla fine degli anni Venti del Novecento, i controlli più severi nei porti di arrivo, specialmente negli Stati Uniti, favorirono importanti miglioramenti nel trasporto di emigranti; era consentito sbarcare solo alle navi che rispettassero le norme di igiene e sicurezza e le compagnie di navigazione venivano pesantemente multate per ogni violazione: “Il capitano di una nave che arriva in porto in violazione di questo Act sarà considerato colpevole di reato, e se il numero dei passeggeri di terza classe è superiore a quello concesso, il detto capitano sarà multato con 50 dollari per ogni passeggero in più e potrà essere imprigionato per un periodo non eccedente i sei mesi” (Molinari 1988, 57).
Anche la concorrenza tra le compagnie italiane e quelle straniere, favorita dalla legge del 1901, ebbe effetti molto positivi; inoltre, con il passare degli anni, le informazioni che giungevano attraverso le lettere dei compaesani già partiti, i racconti di quelli ritornati e le guide pubblicate dal commissariato aiutarono nella scelta delle navi migliori, impedendo di giungere a bordo del tutto sprovveduti. Le flotte furono costantemente rinnovate, i piroscafi divennero più veloci e sicuri. I “trenta giorni di macchina a vapore” di una celebre canzone si ridussero notevolmente e anche il vitto migliorò sensibilmente. Il citato Tommaso Bordonaro (1991, 47) si era imbarcato nel 1947 a Palermo sul Marine Shark; il viaggio durò 15 giorni e, a parte il mal di mare, fu molto tranquillo:
Appena partì la nave cominciano a darci manciare e servitù da grandi signori: pasta bianca come la schiuma che in Italia si trivava a 500 lire il Kg., carne di tutte le qualità, burro che all’Italia non si conosceva, caffè, zucchero, checchi, frutta, marmellata, insomma tutte le cose che manciavano le grande signori, che all’Italia non si potevano manciare perchè per manciare quei pasti doveva pagare a peso d’oro […] E questa vita per tutto il viaggio.
Ancora oggi, il mare è il guardiano delle speranze di migliaia di uomini e di donne, ma può diventare la tomba dove annegano i sogni di una vita migliore.
Il blog di Fortress Europe (http://fortresseurope.blogspot.com), in base alle notizie censite dalla stampa internazionale nel periodo 1988-2007, ha registrato un totale di 11.756 morti documentate di persone che tentavano di superare le frontiere dei paesi dell’Unione Europea, delle quali 8114 sono annegate nel mar Mediterraneo e nell’oceano Atlantico, verso le isole Canarie. Oltre metà delle salme non è mai stata recuperata.
Nel Canale di Sicilia, tra la Libia, l’Egitto, la Tunisia, Malta e l’Italia, le vittime sono state 2486, tra cui 1529 dispersi. Altre 64 persone sono morte navigando dall’Algeria verso la Sardegna; lungo le rotte che vanno dal Marocco, dall’Algeria, dal Sahara occidentale, dalla Mauritania e dal Senegal alla Spagna, puntando verso le isole Canarie o attraversando lo stretto di Gibilterra, sono morte almeno 3986 persone. Nell’Egeo, tra la Turchia e la Grecia, hanno perso la vita 885 migranti; infine, nel mare Adriatico, tra l’Albania, il Montenegro e l’Italia, sono morte 553 persone. Il mare non si attraversa soltanto su imbarcazioni di fortuna, ma anche su traghetti e mercantili (http://fortresseurope.blogspot.com/2006/02/nelle-stive-dei-cargo.html) stando nascosti nella stiva o dentro i container sul ponte del cargo. Anche qui le condizioni di sicurezza restano bassissime: sono 140 le morti accertate per soffocamento o annegamento.
Il Mediterraneo “che gli antichi romani chiamavano mare nostrum è diventato un immenso cimitero dove giacciono insepolte decine di migliaia di persone senza nome; la maggior parte delle quali erano profughi in cerca di asilo” (Delle Donne 2004, 119).
Come un secolo fa, le stesse immagini tratte dell’inferno dantesco sono spesso impiegate per descrivere le ripetute tragedie al largo delle coste dei paesi che segnano i confini meridionali dell’Unione Europea. Stefano Valfrè, comandante del peschereccio Sant’Anna che nell’autunno del 2003 ha prestato soccorso ad un’imbarcazione di clandestini nel Canale di Sicilia, dichiarava ai giornalisti:
Quando ci siamo avvicinati al barcone alla deriva, che sembrava vuoto, ai nostri occhi si è presentata una scena da inferno dantesco. I corpi degli immigrati erano accatastati l’uno sull’altro. Le braccia di alcuni di loro si protendevano verso di noi per chiedere aiuto […] Abbiamo lanciato pane e bottiglie di acqua a quei poveretti in attesa dell’arrivo della motovedetta. Non riuscivamo a sentire le loro voci, a causa del rumore dei motori, ma vedevamo i loro corpi ridotti a scheletri, i loro sguardi impauriti, le loro braccia alzate. Quelle immagini, sotto i riflettori dei nostri fari che illuminavano la coperta, non potrò mai dimenticarle (Raisatnews24, 20 ottobre 2003).
Molti dei migranti di oggi non hanno deciso volontariamente di partire, ma lasciano il proprio paese nel disperato tentativo di fuggire alle catastrofi causate da guerre, pulizie etniche, disastri naturali e dalla violazione sistematica dei diritti umani; molto spesso non conoscono il paese verso cui sono diretti e non possono tornare indietro a meno di sostanziali cambiamenti politici ed economici. Attraversano il mare e cercano di raggiungere illegalmente un’Europa i cui confini sono sempre più impenetrabili. “Fortezza Europa” è, infatti, l’espressione generalmente usata per indicare gli sforzi dell’Unione Europea per lasciare i beni, le imprese e le persone non appartenenti all’Unione fuori dal territorio dei 27 paesi membri, queste misure sono giustificate come necessarie per la salvaguardia del territorio, della sicurezza e dell’identità delle genti europee:
Così, se la protezione dei rifugiati rientra nella giurisprudenza dei paesi dell’Unione e nel Diritto comunitario […] nella pratica dei fatti, ai richiedenti asilo viene preclusa la possibilità di qualificarsi come tali. La figura del richiedente asilo viene ricondotta a quella dell’immigrato e quest’ultima a quella di clandestino, per di più in sentore di terrorismo, quando gruppi di fuggiaschi si profilano all’orizzonte delle frontiere dell’Unione senza i documenti previsti (Delle Donne 2004, 176).
I boat-people sono costretti ad acquistare il passaggio da trasportatori non autorizzati – i cosiddetti scafisti – e, imbarcandosi quando il mare è in cattive condizioni per eludere più facilmente i controlli delle forze dell’ordine, rischiano la vita a bordo di vecchie imbarcazioni sovraffollate, del tutto inadeguate a navigare in mare aperto. Queste sono le moderne navi di Lazzaro.
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1983 “Trenta giorni di macchina a vapore”. Appunti sul viaggio degli emigranti transoceanici, in “Movimento Operaio e Socialista”, n. 3.
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1998 (cur.) Il sogno-italoamericano. Realtà e immaginario dell’emigrazione negli Stati Uniti, Napoli, Cuen.
2001a Dal vecchio mondo al sogno americano. Realtà e immaginario dell’emigrazione nella letteratura italiana, in Bevilacqua, De Clementi, Franzina.
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1973 Le condizioni degli emigranti alla fine del XIX secolo in alcuni documenti delle autorità marittime, in “Affari Sociali Internazionali”, n. 3.
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1988 Le navi di Lazzaro. Aspetti sanitari dell’emigrazione transoceanica: il viaggio per mare, Milano, Angeli.
2001 Porti, trasporti, compagnie, in Bevilacqua, De Clementi, Franzina.
2002 La salute, in Bevilacqua, De Clementi, Franzina.
2005 Traversate: vite e viaggi dell’emigrazione transoceanica italiana, Milano, Selene.
2007 Il viaggio di emigrazione tra evento e racconto, in De Rosa, Verrastro.
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1907 Il problema dell’Italia d’oggi, Milano, Sandron.
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2005 Odissee. Italiani sulle rotte del sogno e del dolore, Milano, Rizzoli.
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1916 Il porto di Genova, Genova.
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1970 Raccolta amplissima dei canti popolari siciliani, Bologna, A. Forni.
Zagarrio V.
1995 Frank Capra, Milano, Il Castoro.
Siti consigliati
http://www.theshipslist.com/index.html
Il sito contiene i registri ufficiali dell’immigrazione nel Nord America e in Australia, le cronache dei giornali, informazioni sui naufragi, le foto e le descrizioni delle navi e gli elenchi delle flotte in servizio di emigrazione.
Sito dedicato al libro Odissee. Italiani sulle rotte del sogno e del dolore, scritto da Gian Antonio Stella, editorialista del “Corriere della Sera”.
http://www.italia-rsi.org/cantiitalia/cantemigrazione.htm
Il sito contiene i testi e i file audio della canzoni popolari dell’Italia degli emigranti.
http://hal9000.cisi.unito.it/wf/DIPARTIMEN/Scienze%5Fde/FAR/Banca%2Ddati/
Banca dati degli ex voto pittorici piemontesi a cura di Renato Grimaldi e Roberto Trinchero per il Dipartimento di Scienze dell’educazione e della formazione dell’Università di Torino.
http://fortresseurope.blogspot.com
Il blog gestito da Gabriele Del Grande si presenta come un osservatorio sulle vittime dell’emigrazione e ospita una rassegna stampa che dal 1988 registra tutti i morti alle frontiere europee.
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- Sui grandi piroscafi transoceanici, il termine steerage poteva indicare ogni parte della nave riservata ai passeggeri che viaggiavano alla tariffa più economica e che, di solito, si trovava nei ponti più bassi. [↩]
- Citato da Lupi 1983, 469. [↩]
- Prima che vi fosse una codificazione di tipo legislativo dei fenomeni migratori, il trasporto transoceanico era regolato dal codice della Marina mercantile e dal regolamento di sanità marittima, poiché l’emigrante non era un soggetto giuridico autonomo, ma viaggiava come un normale passeggero di terza classe. [↩]
- Il commissariato compilava le statistiche sanitarie sulla base dei dati forniti dai giornali di bordo che spesso erano redatti in modo sommario; inoltre, il lungo iter burocratico previsto per la consegna dei giornali al commissariato, lascia presupporre che molti andassero smarriti o non consegnati. Numerosi emigranti, per paura di essere respinti per malattia nel paese di arrivo, non richiedevano l’assistenza sanitaria e non poche navi erano ancora sfornite del servizio sanitario a causa della scarsità del personale a disposizione del commissariato. [↩]
- Citato da Molinari 2005, 71. [↩]