Davide Serafino, Andrea Tanturli, Silvia Vaiani
Un contributo allo studio propriamente storico degli anni Settanta in Italia: questo l’obbiettivo delle giornate di studio seminariali a tema Violenza politica e lotta armata nella sinistra italiana degli anni Settanta, svoltesi il 27 e 28 maggio 2010 a Firenze e il 21 e 22 ottobre a Reggio Emilia, promosse dall’Istituto storico della Resistenza toscano e da quello di Reggio Emilia.
A più di trent’anni dallo svolgimento di queste vicende appare sempre più pressante il bisogno di ricostruzione storica che quei fatti, quei protagonisti, quelle passioni richiedono. Siamo davanti a generazioni prive della loro storia, come ci ricorda Angelo Ventrone, intervenuto in veste di discussant. Difatti come afferma il direttore dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana, Simone Neri Serneri, nell’intervento di apertura alle giornate fiorentine, la questione della violenza politica di sinistra risente, soprattutto a livello di opinione pubblica, dell’immaturità degli studi storici e, di converso, dell’eccesso di narrazioni memorialistiche e giornalistiche. Queste narrazioni, in molti dei casi, si portano dietro pesanti vizi di origine, quali la ricerca dell’effetto narrativo ad ogni costo, lo schiacciamento delle vicende su schemi interpretativi semplicistici tanto fortunati quanto fuorvianti (per fare un esempio “anni di piombo”), la strumentalizzazione politica. Un approccio propriamente storico dovrebbe invece interrogare le vicende sia analizzando le differenti pratiche, prospettive, culture politiche, realtà sociali e territoriali, sia affermando la necessità di ricostruire il contesto comune in cui queste si articolano.
Fondamentale appare il problema delle metodologie di indagine e delle fonti, della loro disponibilità e del loro corretto utilizzo. Feconda è stata la riflessione, stimolata dagli interventi dei discussant Vittorio Vidotto e Alberto Melloni, sul lavoro di filtraggio necessario per fonti coeve come le riviste e i fogli dell’estrema sinistra o per le testimonianze che ci mette a disposizione la storia orale. Altro aspetto metodologico cruciale che ha attraversato numerosi contributi al convegno appare la necessità di una rigorosa attenzione nell’utilizzo di categorie interpretative ambigue come quella di “terrorismo”, o molto estese come quella di “violenza politica”. Eros Francescangeli a tale proposito, intervenendo come discussant, ha portato alle estreme conseguenze questi dubbi metodologici e terminologici e ha proposto di abbandonare l’utilizzo della parola terrorismo sezionando il suo ambito semantico in campi più precisi e omogenei al proprio interno, come violenza diffusa, guerriglia urbana, lotta armata e stragismo. Un’ultima questione preliminare è rappresentata dalla periodizzazione interna degli anni Settanta: presentare una propria visione cronologica significa proporre gerarchie di valore e a volte vere e proprie interpretazioni storiografiche.
Al dibattito seminariale hanno portato il loro contributo trenta studiosi, a cui vanno aggiunti i dieci discussant chiamati a tirare le fila dei lavori e a lanciare il dibattito al termine di ogni sessione. Dalla discussione è emersa una profonda ricchezza e varietà di interpretazioni del fenomeno e di metodi euristici figlia della partecipazione di studiosi di diverse discipline, di diverso orientamento, di diversa appartenenza generazionale.
L’appuntamento seminariale ha visto il suo esordio, nella prima sessione delle giornate fiorentine (Riflessioni preliminari sul caso italiano), con un lavoro di inquadramento generale incentrato sul nodo della periodizzazione e sulla questione della specificità italiana. Monica Galfrè ha teso a criticare la fortunata opzione interpretativa di spezzare in maniera ben definita il decennio fra una prima parte ottimista e pacifica e una seconda violenta e disperata, presentando invece una visione basata più su un graduale processo di escalation e di radicalizzazione che su un frattura netta. A questa interpretazione ha fatto da contraltare Marco Scavino, che ha indicato nella metà del decennio una chiara cesura all’interno delle vicende della sinistra rivoluzionaria. Questa svolta si pone in stretta correlazione con le grandi trasformazioni contemporaneamente operanti in campo economico, politico e internazionale, che spingerebbero una parte del fronte dell’estrema sinistra a maturare la ferma convinzione della possibilità dello sbocco rivoluzionario in Italia e a sposare una strategia di graduale innalzamento del livello dello scontro. Data per scontata nella maggior parte delle ricostruzioni storiografiche, la specificità del caso italiano viene invece messa in profonda discussione da Marco Grispigni che individua la vera peculiarità delle vicende del nostro Paese non nella sua durata o nella sua radicalità politica, ma al contrario nelle forme aberranti ed eccessive della reazione, come nel caso esemplare della strage di Piazza Fontana. A suffragio di questa sua visione Grispigni invoca un reale studio comparato dei movimenti in campo internazionale e una maggiore distinzione analitica fra le varie forme delle pratiche armate. La sessione del convegno è conclusa da Cristian De Vito che esula un po’ dall’ambito introduttivo fino ad ora trattato per entrare nello specifico del tema dei rapporti fra violenza politica e questione carceraria. Il ricercatore, attraverso la lente delle vicende interne agli istituti di pena, si sofferma su due questioni fondamentali: in primis le differenze fra gruppi dell’estrema sinistra e formazioni armate nelle modalità di intervento all’interno dei penitenziari e, in seconda battuta, l’attività dell’antiterrorismo italiano che vede nel carcere un campo di azione talmente cruciale da influenzare la stessa strategia d’insieme.
All’apparato di idee, lessico e discorsi del periodo è stata dedicata la seconda parte del convegno (Retoriche), poi contestualizzate nella terza sessione dalle ricerche incentrate sulle azioni (Pratiche). Barbara Armani, col suo studio sulle parole che nella stampa della sinistra hanno avuto un forte potere di mobilitazione, riflette sul fatto che il richiamo alla violenza è presente negli scritti, ad esempio, di Potere operaio, ben prima della strage di Piazza Fontana e addirittura prima ancora del movimento di operai e studenti del biennio 1968-69. Infatti il rimando alla rivoluzione, che ha come terreno di coltura originario almeno la mitografia resistenziale, decisamente ricorrente in un Paese in cui si scontrano ancora fascismo e antifascismo, compare già nel 1967. All’indomani di Piazza Fontana, poi, il noto pamphlet La strage di stato, col suo linguaggio mutuato dal gergo militare, spinse il conflitto verso la personalizzazione del nemico, finora anonimamente fronteggiato nelle piazze, e ora individuato nel Commissario Calabresi, prima vittima di quella escalation della violenza di cui parla Guido Panvini. Panvini mostra come, tra il 1971 e il 1973, dagli scontri di piazza e dalla raccolta di informazioni sugli avversari politici si passa alle aggressioni mirate e alla schedatura dei nemici. Sebbene l’uccisione di Calabresi sia l’occasione per le organizzazioni di riflettere circa la lotta armata e l’omicidio politico e per prenderne le distanze sulle rispettive testate, di fatto le azioni, ricorda Armani, cominciano a correre su un doppio binario: da un lato si cercherà la rappresentanza parlamentare, dall’altro i servizi d’ordine lavoreranno sul terreno dell’antifascismo militante.
Silvia Casilio rileva poi come il repertorio culturale della politica rivoluzionaria appartenga pressoché a tutte le riviste nate in quel periodo (“Aut aut”, “Ombre rosse”, “Controinformazione”, “Quaderni piacentini” e altre). Queste esplorano infatti completamente il campo della demonizzazione retorica dei propri avversari ed esaltano lo scontro frontale fino ad un radicalizzarsi di tale approccio nel periodo che va dal 1974 al 1978, in un passaggio dalla violenza difensiva nei confronti di uno Stato percepito come nemico e stragista alla violenza come pratica autoliberatoria.
Isabelle Sommier chiude la discussione affermando che le teorie rivoluzionarie affrontano il tema della violenza in modo incidentale, come se il ricorso ad essa fosse naturale secondo due diverse prospettive: o perché conforme alle leggi oggettive della storia (materialismo), o perché strumento di liberazione individuale e collettivo con forte motivazione etica (idealismo). Ogni organizzazione farà propria una diversa declinazione del concetto di violenza, entro l’innegabile comune legittimazione teorica, fino all’esplosione del movimento del 1977 in cui prevarrà una tipologia di violenza diversa da quelle sopra ricordate, tesa invece all’appropriazione di spazi e servizi in una propaganda di liberazione del sociale in genere che travalica i confini della fabbrica.
L’intervento di Lorenzo Bosi ha lo scopo di porre l’accento sulle scelte individuali di chi si avvicinò alla lotta armata. Bosi, che ha lavorato insieme a Donatella Della Porta, individua, attraverso fonti di vario tipo, differenti traiettorie ricorrenti nelle biografie dei militanti, mossi essenzialmente da ragioni di tre diversi ordini: ideologico, strumentale e solidaristico. A ciascuna motivazione corrisponde uno specifico contesto di relazioni, un particolare modo di percepire la realtà e infine meccanismi affettivi e di relazione distinti.
La quarta sessione del convegno (Luoghi e contesti) è stata dedicata alla geografia del fenomeno: ad un primo intervento di carattere generale sono seguite le analisi di tre situazioni locali.
La relazione di Vincenzo Filetti si articola in tre nuclei tematici: i gruppi che hanno praticato la violenza armata, la tipologia di azioni compiute e le motivazioni con cui queste sono state giustificate. L’autore individua nel 1974 una data spartiacque: cambiano i gruppi (da 9 distribuiti in 6 regioni a 36 in 12 regioni), si estende il loro raggio d’azione dal Nord-Ovest al Centro e al Sud e infine si radicalizzano le pratiche, passando da azioni dimostrative a sequestri, esecuzioni e ferimenti intenzionali. L’aspetto centrale che emerge dal lavoro di Filetti è il ruolo assunto dal territorio nelle fasi di sviluppo della lotta armata: esso passa infatti da essere una “variabile condizionante” ad acquisire una valenza solo simbolica, fino a divenire un elemento marginale. Anche l’intervento successivo di Silvia Vaiani dedicato all’esperienza fiorentina dei Nap rileva nel 1974, anno di nascita del gruppo, un importante snodo nella storia della lotta armata. L’autrice però attenua il valore periodizzante di tale data mettendo in luce alcune importanti continuità con il passato come lo stretto legame tra i Nap e Lc, del cui intervento in carcere furono l’esito non previsto. Il contributo di Andrea Baravelli si concentra invece sulle peculiarità del terrorismo nel contesto padovano. Tra queste lo studioso ricorda il rapporto stretto e drammatico tra la violenza armata e l’ateneo padovano; l’instabilità delle piccole aziende inserite nel sistema economico-territoriale di cui Padova funge da perno, che ha un peso notevole nell’evoluzione terroristica, pur non essendone il motore tout court; la minorità del Pci che lo porta ad una precoce consapevolezza della pericolosità del fenomeno, a cui fa da contraltare il ritardo da parte della città e dell’opinione pubblica. Un ultimo elemento che caratterizza Padova è il ruolo svolto dalla magistratura, con particolare riferimento all’operazione del 7 aprile 1979 attuata dal sostituto procuratore Pietro Calogero contro l’Autonomia. La sessione del convegno è chiusa da Mirco Carrattieri con un intervento che ci porta alle origini della lotta armata, alla vicenda dell’“appartamento” in cui si riuniva il Collettivo politico operai studenti di Reggio Emilia, considerato come l’incubatrice del brigatismo reggiano. Il suo lavoro ci offre sia informazioni specifiche sul gruppo (composizione, letture, incontri, azioni dimostrative) sia indicazioni di carattere generale sulla situazione reggiana (contesto in cui cresce l’esperienza dell’appartamento, forme che assume il conflitto sociale, atteggiamento dei partiti, esaurirsi dell’esperienza e diverse modalità di uscita da essa).
Le giornate reggiane del convegno si sono aperte con una sessione (Confronti) che ha cercato di allargare gli orizzonti del tema preso fin qui in esame affrontando questioni scarsamente scandagliate dalla storiografia e provando a offrire punti di vista diversi in un’ottica di studi comparati. L’intervento di Leonardo Cecchini e Francesco Caviglia si concentra sulle vicende di una piccola formazione armata danese di orientamento marxista leninista votata interamente alla causa antimperialista. L’attenzione dei due studiosi si focalizza, attraverso gli strumenti interpretativi propri degli studi culturali, sui percorsi della scelta dell’azione violenta e sulle dinamiche di rilettura della memoria a livello individuale e collettivo. Il contributo successivo di Loredana Guerrieri sposta l’attenzione nuovamente sul quadro italiano mostrando i percorsi di sviluppo delle formazioni armate di estrema destra che, a cavallo del decennio, conoscono una profonda trasformazione strategica. Dopo essere stati agenti consapevoli della strategia della tensione, i neofascisti maturano una scelta di radicale antagonismo nei confronti dello Stato e sposano un disegno ideologico e pratico, quella dello spontaneismo armato, finalizzato, almeno esteriormente, alla destabilizzazione del sistema. L’intervento si concentra soprattutto sull’individuazione delle dinamiche alla base di questo mutamento, soltanto in parte interne al mondo della destra estrema e risultato anche dei cambiamenti dell’atteggiamento tenuto nei loro confronti da Stato e Msi. Conclude questa sessione la ricerca di Stefania Voli che affronta il nodo dei rapporti problematici e complessi fra lotta armata e movimento femminista facendo proprie le metodologie della storia delle soggettività e della storia di genere soprattutto rispetto all’accidentato terreno delle forme di rielaborazione soggettiva e di risistemazione della memoria postuma. Premessa al discorso appare l’affermazione della fondamentale importanza della categoria della violenza in una equilibrata interpretazione degli anni Settanta, ma anche la necessità di sviscerarla in profondità e di contestualizzarla al fine di evitarne lo schiacciamento sulle forme proprie della sola componente della lotta armata.
La discussione è ritornata poi a focalizzarsi sull’approccio alla violenza e sul suo utilizzo da parte della sinistra rivoluzionaria durante la seconda sessione (Discorsi) che ha arricchito la comprensione di un tema, quello delle retoriche e delle pratiche della violenza, già in parte affrontato a Firenze. Nel primo intervento Gabriele Donato illustra le componenti essenziali del dibattito interno a Potere operaio durante il quadriennio 1970-1973 circa l’utilizzo della forza, evidenziando i testi e i contesti alla base della teoria insurrezionale del gruppo. La necessità di competere con altre formazioni e di costruire la propria identità portano Po a rifiutare lo spontaneismo propugnato da Lotta continua e a imprimere una torsione avanguardista al proprio operato con un indiscutibile recupero del Lenin del 1905. Riguardo la teoria dell’insurrezione il gruppo si dimostra particolarmente debitore all’opera di Emilio Lussu, al fine anche di differenziarsi dalla mitologia resistenziale e terzinternazionalista che animava Feltrinelli e le Br. Lo studioso infine evidenzia il ruolo che le specificità territoriali interne all’organizzazione ricoprirono nella divergenza strategica che si venne a creare fra l’indirizzo di Toni Negri e quello di Franco Piperno. Che i primi anni Settanta siano il momento di svolta in cui il mondo dell’estrema sinistra si pone il problema della violenza in chiave non più solamente difensiva ne è convinto anche Antonio Lenzi. Il suo contributo cerca di chiarire tale mutamento di prospettiva attraverso l’analisi delle posizioni relative a vicende dei primi mesi del 1971 come risultano dalle carte interne, ritenute più probanti e più variegate rispetto alle uscite pubbliche. Da questo spoglio emerge la sostanziale impreparazione del gruppo rispetto all’atteggiamento da tenere nei confronti dell’uso della violenza, l’inadeguatezza della struttura organizzativa, il problema dei conflitti fra direzione nazionale e gruppi locali. In questo quadro maturerà la scelta di accettare la militarizzazione e l’escalation nell’uso della forza sancita dal convegno nazionale dell’anno successivo a Rimini. Vicino a Lotta continua, ma autonoma nei propri orientamenti, il periodico “Ombre rosse” ha rappresentato il tema del terzo e ultimo intervento, ad opera di Carlo De Maria. Attraverso lo spoglio della pubblicazione e le interviste ai suoi animatori principali, fra cui spicca Goffredo Fofi, la ricerca ha inteso seguire le vicende di questo bimestrale, che dall’originaria natura di rivista di cinema debordò fino a trasfigurarsi in un foglio di vera e propria critica sociale di grandissimo spessore culturale. Uno dei campi dove fu particolarmente forte il suo impegno di messa in discussione delle granitiche certezze del mondo della sinistra rivoluzionaria fu proprio quello rappresentato dell’uso troppo disinvolto della violenza.
La terza sessione del convegno (Reazioni), a cui è mancata Isabelle Sommier con la sua relazione incentrata sulla risposta del movimento operaio, dei sindacati di sinistra (Cgil) e del Partito comunista italiano alla conflittualità e ad alcuni snodi cruciali di quegli anni, è stata aperta da Giovanni Mario Ceci. Lo studioso ha ripercorso, anche grazie alle carte personali di Aldo Moro, il pensiero del presidente della Democrazia cristiana riguardo alla situazione politica italiana e in particolare ai movimenti eversivi. Non solo viene dato rilievo alla consapevolezza di Moro della serietà del fenomeno della lotta armata e della necessità di una risposta immediata e politica da parte della classe dirigente del Paese, ma si sottolinea anche la preoccupazione dello statista riguardo alla minaccia del ritorno al fascismo e di una svolta autoritaria, da lui presentite con la strage di Piazza Fontana la cui matrice egli seppe subito collocare a destra. L’attenzione di Moro si concentrò sulle trame nascoste e striscianti provenienti da destra e si spostò sulla violenza politica di sinistra solo nel 1977, anno in cui questa gli sembrò prevalere per pericolosità, sebbene di entrambe avesse l’idea che fossero sostenute da organizzazioni esterne al Paese.
Elisa Santalena tratta invece della risposta che lo Stato dette alla cosiddetta “emergenza terrorismo” attraverso la Legge reale e la creazione delle carceri speciali nel 1977, la Legge Cossiga del 1980, la legge sul pentitismo e quella sulla dissociazione, mostrando come il carcere divenne, lentamente ma con risolutezza, uno strumento a cui lo Stato ricorse per fronteggiare i gruppi armati.
La quarta sessione seminariale (Difese), ha spostato l’attenzione sull’attività giudiziaria in Italia nei confronti dei cosiddetti “nemici pubblici”. Attraverso una periodizzazione tesa a rilevare le differenze occorse nel tempo nelle strategie della difesa e dell’accusa, Maria Malatesta ha proposto una riflessione sulla deprofessionalizzazione degli avvocati della difesa che, nella quarta e ultima fase della periodizzazione individuata, vengono denunciati dai loro stessi assistiti nonché dalla magistratura che tende a vederli come affini alle organizzazioni che difendono fino a giungere in qualche caso alla loro incarcerazione. La relazione di Paolo Mencarelli si iscrive in quella appena ricordata attraverso la narrazione della vicenda dell’ex partigiano Angiolo Gracci che, uscito dal Partito comunista nel 1966 per aderire al Partito marxista-leninista in cui rimase fino al 1989, scelse, per la propria attività di avvocato, un approccio decisamente militante. L’eterogeneo materiale archivistico conservato sulla figura di “Gracco” si spiega col rifiuto di una strategia puramente tecnica che lo portò ad accumulare fonti e testimonianze di ogni genere. Inoltre, nel proprio operato, Gracci non cessò mai di combattere le violazioni ai principi costituzionali e quelle che riteneva le vestigia normative dello Stato fascista, così come si impegnò nella denuncia sistematica delle condizioni in cui vivevano i detenuti, chiusi nei gabbioni e nelle carceri speciali.
La quinta sessione del convegno (Crisi) è stata dedicata ad una tematica non molto trattata dalla storiografia della lotta armata. Se molti infatti si sono interrogati sulle origini del fenomeno, non è successo altrettanto per quanto riguarda la sua parabola discendente. Il primo intervento di Andrea Saccoman si concentra sullo smantellamento della colonna “Walter Alasia” delle Br alla cui origine distingue due ordini di elementi, uno interno e uno esterno, a cui va aggiunto, a cavallo tra i due, il pentitismo. L’elemento decisivo viene individuato nel cosiddetto “riflusso” che, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, significò da un lato il ritorno al privato di molti militanti e dall’altro l’emergere di nuove forme di aggregazione giovanile in cui la politica risulta totalmente dequalificata. In questo contesto il problema della sostituzione degli arrestati diviene cronico e irreversibile. Un secondo elemento esterno è la maggior efficacia dell’opera di contrasto delle forze dell’ordine che, tra il 1978 ed il 1983, smantellarono l’intera colonna milanese. La principale causa interna viene invece individuata nelle sempre più acute divergenze tra la Walter Alasia e l’esecutivo nazionale che culminarono nell’espulsione della colonna da parte della direzione strategica. Infine il fenomeno del pentitismo, centrale nella crisi della lotta armata, fu dettato sia da motivazioni interne, come le scissioni e la minore “qualità” dei militanti, che esterne, come i successi della polizia ed il venir meno degli ultimi residui di consenso. Il contributo di Sheyla Moroni si concentra invece sul mutamento di approccio da parte dei media al problema della lotta armata in un anno cruciale come il 1981, mutamento influenzato anche dal sopraggiungere di nuove “emergenze” come lo scandalo P2 e l’ascesa delle organizzazioni criminali. Nello specifico l’autrice mette in luce tre importanti mutamenti: il diverso uso del dolore dei familiari delle vittime, il coinvolgimento in prima persona dei giornalisti nell’azione di contrasto al terrorismo ed infine la scarsa attenzione ad altri attori, come la camorra, che incrociarono il loro percorso con quello della lotta armata e del contrasto ad essa.
Il convegno è stato chiuso da una sessione dedicata alle raffigurazioni del fenomeno della lotta armata attraverso tre lenti differenti (Rappresentazioni): quella della produzione fotografica ed audiovisiva degli stessi protagonisti, quella dei manifesti dei partiti politici ed infine quella fornita dal cantautore genovese Fabrizio De Andrè nell’album Storia di un impiegato. L’intervento di Christian Uva si concentra sulle modalità che sottendono alla costruzione dei messaggi visivi, foto e audio, prodotti dalle stesse organizzazioni. Lo studio di questo materiale, dalla foto del sequestro Macchiarini, quelle del magistrato Sossi e le celeberrime polaroid dal “carcere del popolo”, fino a giungere alla produzione di riprese audiovisive durante il “processo proletario” a danno di Roberto Peci, vuole offrire un contributo non solo alla ricostruzione iconografica della propaganda armata, ma anche affrontare la questione più vasta dell’immaginario che quel decennio ha prodotto e alimentato. Il contributo di William Gambetta muove invece da una prospettiva differente e per certi versi opposta, ossia le modalità con cui è affrontata la lotta armata nei manifesti dei partiti politici dell’epoca. Ancora lontani dall’omologazione quantitativa dei manifesti elettorali attuali, quelli degli anni Settanta offrono un interessante spaccato dell’interazione tra messaggio politico, elaborazione grafica e mobilitazione sociale. Alle rappresentazioni classiche del “nemico” come essere mostruoso, spersonalizzato ed immorale, negatore della stessa civiltà umana, fa da contraltare una raffigurazione delle vittime celebrativa al limite dell’agiografico. A questi si accompagnano manifesti in parte più innovativi, che fanno un uso assiduo della fotografia giornalistica. L’analisi politica dell’album Storia di un impiegato di Fabrizio De André da parte di Domenico Guzzo mira a ricostruire sia le dinamiche di autorappresentazione della classe piccolo-borghese di fronte ai mutamenti sociali degli anni Settanta che quelle di rielaborazione del fallimento dell’ipotesi violenta. L’album da questo punto di vista offre diversi spunti che vanno dalla scelta di adesione alla lotta armata, alla sua sconfitta e alla sua punizione, dalla necessità della piccola-borghesia di reagire al processo di proletarizzazione subito, che sottende una malcelata necessità di ascesa sociale, alla riflessione sulla violenza di un potere visto come severo ed inflessibile nonché sull’uso del tritolo contro di esso.
Se il fine delle giornate era anche fare il punto sulle acquisizioni propriamente storiche rispetto al periodo si può lecitamente affermare che il seminario ha mostrato la ricchezza delle ricerche in corso, ma anche la necessità di perseverare su questa strada. Gli anni Settanta e le loro vicende più dolorose necessitano di analisi rigorose e coraggiose, non di ricostruzioni di comodo o di banalizzazioni giornalistiche.