di Marco Bizzocchi
Daniela Bifulco, professore associato di Diritto pubblico comparato alla Seconda Università degli Studi di Napoli e ricercatore presso l’Institute des hautes études sur la Justice di Parigi, con questo libro espone uno di quei temi che mettono in evidenza le difficoltà, spesso insormontabili, con le quali il diritto si trova a volte a trattare: il negazionismo.
La struttura stessa del diritto che, essenzialmente prevede il fermo trionfo di un’idea a scapito di un’altra, solleva questioni di grande difficoltà al giudice che si trova a dover sentenziare su un caso di negazionismo. Un esempio molto interessante di queste complicazioni è ampiamente trattato nel primo capitolo Negazionismo/Revisionismo, dove la Bifulco espone un problema già di per sé ostico a livello accademico, ma che si colora di tinte interessanti se portato dentro un’aula di tribunale.
Come “sceverare, nel contesto di un’argomentazione, ciò che è mirato a storicizzare e revisionare letture consolidate della storia del regime nazionalsocialista e delle sue responsabilità nello sterminio degli ebrei, da quel che è invece volto a giustificarlo” (p. 18). In altre parole, come distinguere una trattazione revisionista da un vero negazionismo? Con quali criteri il giudice può distinguere tra tesi negazioniste e revisioniste quando quest’ultime, in alcuni casi, si pongono teoricamente al confine tra i due campi ma senza oltrepassarlo?
Per sbrogliare almeno alcune delle questioni che situazioni siffatte stimolano, la Bifulco propone un confronto tra un dibattito avvenuto in Germania su alcune tesi revisioniste, lo Historikerstreit, e le tesi di alcuni studiosi riuniti sotto la casa editrice francese Vieille Taupe, spiccatamente negazioniste. Il famoso dibattito svolto tra alcuni dei maggiori intellettuali tedeschi sulle responsabilità della Germania e dei tedeschi nel nazionalsocialismo e nell’uccisione degli ebrei è un classico caso in cui alcune tesi, spiccatamente revisioniste, per quanto inclini a rivalutare il passato della Germania e rivalutare il peso della responsabilità tedesca, non sfociano mai nel puro negazionismo (p. 24). Quello che appare evidente è che tutti gli studiosi che sostengono il bisogno di ridimensionare e riscrivere la storia del Terzo Reich per toglierle quell’alone demoniaco di “male assoluto” (Ernst Nolte in primis) possono essere criticati e le loro tesi demolite da cima a fondo ma non possono essere definite negazioniste in quanto non arrivano a contestare l’effettiva esistenza dello sterminio.
Come già detto, L’Historikerstreit viene poi messo a confronto con delle tesi spiccatamente negazioniste: la Bifulco le trova nella cerchia di studiosi riunita sotto l’insegna della casa editrice francese Vieille Taupe che raggruppa nomi come Paul Rassinier, Faurisson e Bardèche. Questi studiosi, muovendo da interpretazioni revisioniste, giunsero ben presto alla negazione della Shoah e al dubbio sistematico circa l’esistenza delle camere a gas e, più in generale, circa modalità, cause ed entità dello sterminio (p. 29). Ma se per una cerchia di accademici può risultare relativamente semplice e meno impegnativo distinguere casi di revisionismo da negazionismo, per il giudice la cosa risulta più complicata: prima di tutto perché valutare questo tipo di questioni teoriche non rientra nelle sue effettive competenze, e secondo perché le sue decisioni ricadono in ambito penale. Dietro una decisione sbagliata di un giudice c’è sempre la possibilità di intaccare, da una parte, la libertà di espressione, alla quale i negazionisti ovviamente si rifanno, e dall’altra il diritto all’onore e alla dignità dei popoli soggiogati dal Terzo Reich.
Nel secondo capitolo, molto critico, intitolato Negare la Shoah, la Bifulco affronta almeno due temi molto rilevanti: la matrice cristiano-cattolica dell’ideologia antisemita che sta alla base della corrente negazionista, e la spinosa questione dell’unicità della Shoah sollevata dopo il mandato europeo che prevede l’estensione delle pene per negazionismo “a tutti i crimini contro l’umanità, genocidi, ecc.” (p. 75). Per quanto riguarda questo secondo aspetto la Bifulco sostiene che, se da una parte questo “mandato europeo” rimarca l’importanza di altri eccidi, come il caso di quello armeno, dall’altra rischia di relativizzare l’importanza della Shoah. Tra le implicazioni che un trattamento simile della Shoah può portare, c’è da chiedersi se non ci sia il crepuscolo del paradigma storiografico dell’unicità della Shoah con la potenziale conseguenza di sostituire al paradigma della memoria, quello dell’amnesia. In più da questo “mandato europeo” viene alla luce una potenziale azione del Diritto che agevola passivamente la rilettura della storia attraverso un “revisionismo giuridico”.
Il terzo capitolo, Negazionismo alla sbarra, propone l’analisi della situazione in cui “talvolta il giudice è costretto ad affrontare anche questioni di metodo storiografico” (p. 90) proprio perché i teorici del negazionismo pretendono di utilizzare il metodo storiografico per diffondere dei contenuti falsi. In questo caso la Bifulco sostiene che nel sentenziare su un caso di negazionismo il giudice è tenuto a tutelare la dignità delle vittime dagli attacchi che subiscono, partendo dall’inderogabile presupposto che questa “verità storica” esiste ed è quella certificata dal tribunale di Norimberga. Questo esenta il giudice ad entrare nel territorio angusto dell’officina dello storico e limitarsi a sentenziare in base a delle verità già certificate.
Un caso esemplare di questa auto-limitazione giudiziaria è quella del giudice costituzionale tedesco riguardo alla “menzogna di Auschwitz”: in quel caso il giudice non ha preteso di raggiungere una verità storica oggettiva, ma si è limitato ad incentrarsi sulla sottile differenza che intercorre tra l’affermazione di un fatto e la manifestazione di un’opinione su quel fatto stesso (pp. 96-97).
Il testo della Bifulco è importante proprio perché analizza delle circostanze che mettono in difficoltà la struttura stessa del diritto ed è proprio in questi angusti spazi-limite che la saggistica manifesta tutta la sua importanza e necessità: nell’illuminare il certo e renderlo meno certo, problematico. Il testo abbonda di citazioni e riferimenti in inglese, francese e tedesco (quest’ultima l’unica tradotta) e, nonostante manchino quasi completamente dei riferimenti diretti ai testi negazionisti, è completato da un’ottima bibliografia sull’argomento.