Mirtide Gavelli, Fiorenza Tarozzi
Bologna, patriottica e generosa, non doveva essere seconda a nessun’altra città nell’assolvere il doveroso tributo di riconoscenza e di affetto verso le gloriose vittime della guerra (Zucchini 1918, 3).
Dietro queste parole permeate di forte retorica civile stava l’impegno concreto e professionalmente qualificato che l’élite operosa bolognese – politica, medica e intellettuale – stava spendendo a favore di quanti la guerra lasciava vivi, ma mutilati negli arti e nello spirito, mutilazioni che rendevano inabili e incapaci di riprendersi una vita normale, se la normalità era possibile dopo la tragicità delle esperienze vissute al fronte. Un impegno avvertito come imprescindibile fin dai primi mesi successivi all’ingresso del nostro Paese nel conflitto mondiale, impegno rafforzato dalla consapevolezza di quei dolori e di quelle sofferenze che vivevano quanti già da un anno sopportavano i traumi della “guerra moderna”.
Simboli di quell’agire virtuoso furono tre enti tra loro collegati, ma con distinte competenze: le Officine ortopediche dell’Ospedale Rizzoli, il Comitato per l’assistenza agli invalidi di guerra, la Casa di Rieducazione professionale per mutilati e storpi di guerra1.
Negli anni della guerra l’Istituto ortopedico Rizzoli – che era diventato ospedale militare di riserva – moltiplicò i propri sforzi per poter ospitare feriti e mutilati che giungevano dal fronte, facilitando all’Autorità sanitaria militare quella parte di compito che era di sua spettanza, cioè l’assistenza chirurgica e protetica. Tutti gli spazi disponibili, compresa la biblioteca e l’ex refettorio dei monaci, vennero trasformati in sale di degenza e, con la costruzione di un padiglione nello spazio antistante l’ingresso principale, i posti letto furono portati a cinquecento.
Occorreva però andare oltre.
Nell’Istituto Rizzoli i mutilati ridiventavano uomini; ma ciò non era sufficiente: bisognava farli ridiventare lavoratori. E a raggiungere questo scopo, ammoniva il Putti, nient’altro sarebbe stato altrettanto efficace quanto sottoporre gli invalidi alla rieducazione professionale (Zucchini 1918, 3).
Ad assumersi questo come compito primario fu il Comitato bolognese per l’assistenza agli invalidi di guerra, costituito il 28 novembre 1915.
Il senatore Giuseppe Tanari assunse la carica di presidente, affiancato da una commissione esecutiva di cui facevano parte capi di istituzioni professionali, scolastiche e sanitarie cittadine.
Tra le prime discussioni apertesi in seno al Comitato bolognese per l’assistenza agli invalidi vi fu quella relativa alla tipologia di impegno che si doveva mettere in atto in merito alla loro rieducazione: c’era chi sosteneva l’iniziativa privata attraverso l’elargizione di sussidi che permettessero agli invalidi di frequentare singolarmente e secondo la propria iniziativa officine e laboratori; chi invece propendeva per la istituzione di officine e scuole speciali a cui gli invalidi potessero accedere restando comunque affidati alle loro famiglie; infine c’era chi sollecitava la fondazione di un istituto nel quale i mutilati fossero accolti, mantenuti, rieducati e riabilitati. Quest’ultima fu la strada scelta e per la sua realizzazione venne istituita la Casa di Rieducazione professionale, la cui direzione venne affidata all’ingegner Dino Zucchini.
Fin dal primo momento si posero due problemi: trovare fondi per fare decollare l’iniziativa e individuare una sede idonea all’accoglienza. Alla sottoscrizione per raccogliere denaro i bolognesi risposero con la solita, riconosciuta generosità; per la sede, grazie alla collaborazione dell’Autorità militare, si poté usufruire di un convento situato nel Foro Boario, oggi Piazza Trento e Trieste, requisito dall’esercito allo scoppio del conflitto.
Il “Conventino”, così era conosciuto l’edificio, era in relative buone condizioni, ma era stato pensato per tutt’altra destinazione, appunto un convento di suore. Nella dettagliata descrizione che accompagna l’atto di consegna sono sottolineati difetti e carenze: dal deterioramento della cancellata all’abbandono del giardino; ma anche il buono stato del tetto e delle docce, del loggiato e del sotterraneo. Accettabili anche le condizioni delle stanze, della cucina e della lavanderia, degli impianti elettrici e idraulici2. Insomma si poteva partire.
Ben presto però l’aumentare dei ricoverati impose opere di riadattamento e di ampliamento. Già sul finire del 1916 si pensò alla possibilità di allargarsi verso l’attiguo convento di S. Antonio e di alzare di un piano il padiglione ad uso di laboratori che si stavano avviando.
Il 12 settembre 1917 venne concluso l’accordo con i Frati del vicino convento per la gestione temporanea di alcuni locali a piano terra e al primo piano dell’edificio conventuale, di una striscia di terreno adibito ad orto, di una parte della cantina e di altri piccoli locali a questa adiacenti.
Dopo l’acquisizione degli spazi nel convento di S. Antonio, contiguo come si è detto al Conventino, l’organizzazione degli spazi vedeva a fianco di un numero adeguato di stanze, distribuite sui due edifici, cinque aule nelle quali si svolgevano le lezioni di alfabetizzazione e, anche, di canto, di dattilografia, telegrafia. A queste si aggiungevano i laboratori di vimineria, sartoria, falegnameria, legatoria di libri, calzoleria. Per l’officina dei tornitori in ferro e degli aggiustatori si faceva ricorso alle strutture dell’Istituto tecnico comunale d’Arti e mestieri Aldini Valeriani che fin dal nascere della Casa aveva offerto la disponibilità ad un’ampia collaborazione.
Per i momenti di ricreazione i mutilati avevano a disposizione una sala nella quale trovavano libri e giochi (erano escluse le carte) oppure, se il tempo lo permetteva potevano passeggiare in giardino dove si trovava anche un campo per il gioco delle bocce.
L’inaugurazione della struttura avvenne il 9 aprile 1916, alla presenza delle autorità civili e religiose.
Come detto, la struttura, inizialmente pensata per 60 posti letto si dimostrò subito insufficiente, e i posti furono rapidamente portati a 175 (a questi allievi “interni” si aggiungevano 20 esterni, domiciliati in città, che dormivano in famiglia).
La rieducazione professionale cominciava necessariamente dall’alfabetizzazione elementare: venivano infatti organizzati corsi sia per gli analfabeti che per coloro che invece, pur avendo frequentato le prime classi scolastiche, non avevano potuto proseguire. Negli elenchi da noi consultati, infatti risulta in tutti i 595 casi elencati un avanzamento nel grado di istruzione: per molti solo un piccolo passo, per altri il raggiungimento della licenza elementare3.
Nel corso della giornata, l’istruzione scolastica si alternava a quella professionale.
Le possibilità che la Casa offriva nella scelta di un laboratorio ove imparare un nuovo mestiere, erano molteplici. In gran parte si trattava di mestieri, oggi pressoché scomparsi, che potevano essere praticati in proprio e in ogni angolo della penisola. Ecco dunque i laboratori per la lavorazione di oggetti in vimini, treccia di paglia, canna d’India, truciolo; sartoria; falegnameria; tornitori in legno, intarsiatori, intagliatori; legatoria per libri; calzolai; tornitori e aggiustatori metallici; telegrafia Morse; coniglicoltura, apicoltura, bachicoltura.
Non c’è, e purtroppo per mancanza di fondi non ci sarà mai, quella che invece Zucchini, che come detto fu sempre molto interessato alle problematiche del mondo agricolo, riteneva una opportunità fondamentale (e che sarà invece avviata presso altre Case italiane) ovvero la scuola di rieducazione agricola.
Per un certo periodo funzionò anche la scuola di automobilismo, grazie a speciali protesi da adattare sul volante e sul cambio, ma per mancanza di benzina e per problemi burocratici legati alla concessione della patente di guida agli invalidi venne sospesa.
Alla formazione professionale si alternavano poi momenti di svago, dedicati al canto corale ed alla musica, e la scuola di ciclismo, attività ritenuta altamente terapeutica per i mutilati ad una sola gamba, o ad una metà gamba, poiché grazie al movimento rotatorio il moncone riceveva maggiore ossigenazione. Inoltre si rivelava una attività utilissima per il morale, perché consentiva di recuperare autonomia di spostamento, contribuendo in tal modo a superare depressioni e frustrazioni. Infine, il campo da bocce, pensato per il tempo libero, contribuiva sia allo svago che alla rieducazione fisica, e la sala di lettura, con annessa bibliotechina, andava a completare l’offerta culturale proposta ai ricoverati, per i quali diverse associazioni locali proponevano anche spettacoli teatrali e di svago nei teatri cittadini.
Nei cinque anni di funzionamento della Casa bolognese, tolti i 575 soldati che vennero trasferiti per ragioni legate alla residenza (ovvero avviati a Case più vicine alla propria famiglia) si ebbe un numero effettivo di ricoverati pari a 1.426 uomini.
Di questi, 475 vennero dimessi per rifiuto di sottoporsi alla rieducazione, ed altri 278 dimessi per altre ragioni. Dei 641 che accettarono il processo di rieducazione, che rappresentano il 45% del totale dei ricoverati, ben 595 vennero anche ritenuti meritevoli di premio finale. Per tutti, poi, Zucchini si attivò per quanto gli fu possibile per avviarli ad un lavoro, o per dotarli di mezzi per praticare il lavoro per cui erano stati preparati (Valentini 2005, 65-68)..
Se la costruzione della rete del collocamento costò impegno e fatica, altrettanto non si può dire di quella della solidarietà che si creò attorno alla Casa per tutto il tempo della sua attività: offerte in denaro da parte si associazioni, istituti bancari, privati non vennero mai a mancare, così come biglietti gratuiti per i teatri o le manifestazioni festive cittadine. La città si era stretta con sincero affetto attorno a questa istituzione che chiuse definitivamente la sua attività all’inizio del 1922. Nelle parole dell’ultimo direttore la sintesi del lavoro di tanti anni:
Nell’abbandonare per sempre quei locali dove era sorta e prosperata un’istituzione che aveva avuto finalità così eminentemente patriottiche e umanitarie, ci piangeva il cuore. Pensavamo con tristezza che in una città come la nostra, situata geograficamente quasi al centro della penisola, fornita di un Istituto Ortopedico di fama mondiale, con annessa un’officina di protesi di primissimo ordine, di un Istituto clinico per le malattie della bocca pure di grande rinomanza, una simile istituzione non avrebbe dovuto cessare di funzionare mai.
Allorché non avesse più servito per i mutilati e storpi di guerra, avrebbe potuto opportunamente essere destinata a quelli di pace, per la rieducazione professionale cioè di operai e agricoltori colpiti da gravi sinistri, e minorati di conseguenza nelle loro capacità lavorative. […] Ed anche per un’altra ragione, che non è certamente l’ultima, la nostra Casa doveva mantenersi aperta. Questa riguarda il modo perfetto e sapiente col quale, sotto le alte direttive del munificentissimo senatore Tanari, presidente del Comitato di Bolognese, era stata organizzata del suo fondatore e primo direttore il comm. Zucchini. A detta di tutti, egli aveva curato così bene l’ordinamento e l’arredamento dei laboratori, delle scuole, dei refettori, e in breve, di tutti i servizi, da renderla un vero modello del genere.
Sia lode ed onore a questi due grandi Benemeriti dei mutilati della grande guerra, e con loro a tutti quei generosi nostri concittadini che con cospicue offerte contribuirono a dar vita e incremento a un istituto che ha ridato nuove capacità lavorative a centinaia di minorati procacciando ad essi, per averli messi in grado di guadagnarsi la vita e provvedere alla loro ricostruzione economica, la calma e la serenità dello spirito (Bacialli 1922, 32-33).
Nota all’apparato fotografico:
L’Archivio della Casa di Rieducazione professionale per mutilati e invalidi di guerra di Bologna fu depositato al Museo del Risorgimento nel 1935 dall’ex direttore della Casa, Dino Zucchini. Insieme all’Archivio vennero donati libri, opuscoli, oggetti ed un Fondo fotografico composto da 2 album e da oltre 200 fotografie sciolte. Le foto sono state digitalizzate ed a breve verranno messe on-line sul sito del Museo del Risorgimento di Bologna, www.comune.bologna.it/museorisorgimento
Bibliografia
Bacialli G.
1922 La Casa di Rieducazione professionale per mutilati e storpi di guerra in Bologna durante il sesto ed ultimo anno di funzionamento (1 gennaio-31dicembre 1921). Relazione, Bologna, Stabilimenti Poligrafici Riuniti.
Casa di Rieducazione professionale per gli invalidi di guerra, Bologna
1919 Primo elenco dei militari invalidi rieducati proposti per l’assegnazione dei premi di rieducazione: 6 aprile 1916 – 31 marzo 1917, Bologna, Stab. Cacciari.
Montella F., Paolella F., Ratti F. (cur.)
2010 Una regione ospedale: medicina e sanità in Emilia-Romagna durante la Prima guerra mondiale, Bologna, Clueb.
Valentini D.
2005 La Casa di Rieducazione Professionale per Mutilati e Invalidi di Guerra di Bologna (9 aprile 1916-3 gennaio 1922), in “Bollettino del Museo del Risorgimento”, Bologna, a. L, numero monografico Archiviare la guerra: la Prima Guerra Mondiale attraverso i documenti del Museo del Risorgimento, a cura di M. Gavelli.
Zucchini D.
1918 L’opera del Comitato bolognese per l’assistenza agli invalidi di guerra svolta fino al 31 marzo 1918, Roma, Tipografia dell’Unione editrice.
Contenuti correlati
- Oltre al testo di Zucchini, vera e propria fonte, si veda anche la ricostruzione storico-archivistica di Valentini, 2005 e Montella, Paolella, Ratti 2010. [↩]
- Museo del Risorgimento di Bologna, Crp, Atti Archiviati 1916, tit. V, rubr. Immobili, Atti di consegna del “Conventino”. [↩]
- Cfr. Casa di Rieducazione professionale per gli invalidi di guerra, Bologna 1917. A questo primo elenco ne seguirono altri sette, editi in successione fino alla chiusura della casa, avvenuta nel 1921. In totale, come detto, sono riportati i nomi ed i curriculum di 595 soldati rieducati e ritenuti meritevoli di un premio finale. Per ogni soldato gli elenchi riportano la mutilazione subita, il periodo di soggiorno nella Casa, il mestiere esercitato prima della guerra e quello per cui la Casa lo aveva preparato, la località di provenienza e se aveva o meno già trovato una collocazione lavorativa. [↩]