di Vincenzo Lo Buglio
Abstract
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Una delle peculiarità del colonialismo italiano di fine Ottocento in Eritrea fu quella che Irma Taddia definisce “prassi della collaborazione indotta” (Taddia, Chelati Dirar 1997, 233-235). Sebbene ispirata all’indirect rule inglese, che prevedeva l’impiego di un ristretto numero di funzionari britannici e la concessione di una discreta autonomia alla struttura amministrativa locale, l’opera di conquista italiana si caratterizzò in realtà per un rigido controllo operato sui cosiddetti “capi indigeni” che favorirono l’imposizione del dominio coloniale in cambio della legittimazione del loro ruolo di potere. Alla stregua del modello inglese, il governo italiano si serviva, per l’amministrazione del territorio, di quelle “personalità eritree” che preferivano appoggiare la causa coloniale piuttosto che opporvisi (Zaccaria 2009, 22-23) e che, grazie alla loro conoscenza della regione, dei villaggi, degli “usi e costumi”, divennero gli interlocutori privilegiati dei funzionari, svolgendo un importante ruolo di mediazione tra governo coloniale e società eritrea. Ma di fatto era l’amministrazione italiana a sceglierli e nominarli “alla ricerca di un non facile equilibrio fra legittimità del candidato e sintonia con le politiche coloniali” (ibidem). I “capi” ritenuti idonei venivano incaricati di amministrare le tribù, raccogliere i tributi per il governo italiano, difendere il territorio, amministrare la giustizia e distribuire la terra; veniva fornito loro un sussidio mensile e rispondevano direttamente ai funzionari italiani. Chi si dimostrava “inadatto” o inaffidabile veniva invece rimosso dall’incarico e sostituito.
L’intesa infatti non fu sempre facile. Le carceri di Nocra ospitavano regolarmente “capi indigeni” accusati di cospirazione o intesa con il nemico, a testimonianza di una costante inquietudine e paura del tradimento, come avvenne in seguito alla rivolta di Bahta Hagos del 1894-95 (Del Boca 2015, 521-529) – considerato fino ad allora uno dei collaboratori eritrei più fidati – o dopo la vittoria delle truppe etiopiche sugli italiani nella battaglia di Adwa (1896) che provocò la defezione di diversi “capi” prima fedeli al governo.
Per ottimizzare la rete di controllo, nell’anno della fondazione ufficiale della Colonia Eritrea (1890), venne creata l’Agenzia per le Tribù con succursali distaccate nelle varie zone di comando. Tramite il prezioso aiuto dei capi locali, i suoi funzionari amministravano le province di competenza e distribuivano armi e approvvigionamenti alle bande armate indigene. Uno dei loro compiti era censire regolarmente la popolazione e il bestiame al fine di calcolare i tributi imponibili e razionalizzare la distribuzione della terra. Loro interlocutori quotidiani erano i vari na’ib, scek, qâdi, šium, käntiba, či qqa, che fornivano all’amministrazione aggiornamenti costanti sul territorio, comunicavano eventuali richieste del “popolo suddito”, riscuotevano il compenso mensile e consegnavano i tributi raccolti.
Gli incontri con i capi eritrei costituivano l’occasione per svolgere attività di intelligence: quando la lealtà di un “capo” veniva messa in discussione le udienze si trasformavano in veri e propri interrogatori a cui poteva seguire l’arresto o il confino. Gli altri capi venivano interpellati per testimoniare contro il sospetto “traditore”, comunicare eventuali informazioni in loro possesso o ricevere incarichi di spionaggio. Molte volte erano i capi eritrei stessi che, in conflitto fra di loro, si rivolgevano all’amministrazione coloniale per risolvere diatribe o per denunciare eventuali soprusi1. L’ipotetico “indirect rule” si trasformò in questo modo in una vera e propria ingerenza nelle dinamiche della gerarchia locale, nonché nelle questioni più intime della società eritrea come contrasti fra famiglie, rivendicazioni sul diritto a ricoprire ruoli di comando o scontri sulle successioni ereditarie. Da qui l’esigenza di raccogliere, sotto forma di note biografiche, quante più informazioni possibili sui capi eritrei e sul loro rapporto, spesso di lungo termine, con l’amministrazione coloniale. Informazioni che risultavano indispensabili per gestire centralmente la nomina, la conferma o la rimozione dei capi, e che furono uno strumento privilegiato di potere nelle mani dei primi governatori della colonia, in particolare Antonio Gandolfi (1890-1892), Oreste Baratieri (1892-1896) e Ferdinando Martini (1897-1907).
Fonte preziosa per la ricostruzione di questo sottile meccanismo di controllo sono infatti i numerosissimi “registri sulle tribù” e le “raccolte biografiche dei capi eritrei”, compilati dai funzionari dell’Agenzia per le Tribù e conservati nei principali archivi coloniali2.
All’origine della meticolosa compilazione delle “biografie dei capi” è senz’altro sotteso quell’inscindibile binomio “conoscenza-dominio” descritto da Massimo Zaccaria (2009, 22-25) che, nella sua analisi, lancia l’ipotesi di un legame tra le informazioni dei registri coloniali e una serie di cartoline postali (ivi, 26) stampate nel 1901 dalla Società Editrice Laziale di Roma e firmate “di Aichelburg”. Si tratta di venti ritratti fotografici – corredati da brevi descrizioni che ricordano le “biografie dei capi” compilate dai funzionari – con i quali il capitano Errardo di Aichelburg, ufficiale del corpo dei Bersaglieri in servizio in Eritrea dal 1898 al 1903 nel V Battaglione indigeni (durante il governatorato di Ferdinando Martini) “volle dare un volto ai nomi più prestigiosi fra i notabili eritrei” (ibidem) al servizio del governo italiano di quel periodo.
L’ipotesi di Zaccaria è stata confermata dalla fortunata scoperta, durante l’opera di riordino3 dei materiali conservati al Museo del Risorgimento di Modena, di un manoscritto (1901) contenente una raccolta di “Dati biografici riguardanti n.46 personalità indigene” simile alle altre del suo genere, ma presumibilmente l’unica (o perlomeno la prima ritrovata), a cui sono allegati diciotto ritratti di “capi eritrei”4, collegati, tramite un riferimento numerico, alle corrispettive biografie.
Questa inedita documentazione è legata alle cartoline sia sul piano fotografico che su quello biografico. Fra le fotografie, firmate sempre “di Aichelburg”, tre sono infatti i “capi” che ritroviamo, seppure in scatti diversi, anche nella serie della Società Editrice Laziale. In più, fra le “46 note” del manoscritto, ritroviamo le biografie di ben sedici “personalità indigene” delle cartoline e, confrontando i due testi, emergono numerose somiglianze di forma e contenuto.
Cartoline postali Serie B: Personalità Indigene |
Note biografiche del manoscritto di Modena |
2. Ahmed Naib Abd-el Cherim – Figlio del vecchio Naib di Archico, fa le veci del padre; intelligente, affezionato all’Italia, influentissimo nell’Assaorta. |
24. Abd – El Kerim – Figlio del vecchio Naib di Archico disimpegna discretamente le funzioni paterne ed è influentissimo in Assaorta |
5. Mohamed Idris – Figlio di Naib Idris Hassan; intelligente, scrupoloso, fedele informatore, concorse alla buona riuscita delle operazioni contro Cassala. |
11. Mohamed Idris – Figlio del Naib di Moncullo ed Otumlo. Informatore coscienzioso intelligente, premuroso, contribuì alla buona riuscita delle operazioni contro Cassala. |
6. Cav. Scek Abdalla Seragg ben Alì Abdù Alama – Di nobile famiglia tunisina; nominato Muftì dal Governo italiano, giudica in cause civili e religiose; influentissimo fra le popolazioni mussulmane; molto amato e stimato. |
15. Cav. Abdalla Seragg – Di famiglia tunisina prestò ottimi servizi al nostro Governo. Magistrato coscienzioso è giudice al Tribunale di Massawa ed è influentissimo presso i mussulmani. |
7. Cav. Ahmed Abdalla El Gul – Assessore al Tribunale civile e penale di Massawa; prestò agl’Italiani grandi servigi finanziari nella campagna 1895-96. |
21. Cav. El-Gul – Ricchissimo commerciante di Massawa prestò al Governo nostro servizi importantissimi pecuniari che gli valsero l’onoreficenza dell’Ordine della Corona d’Italia. |
9. Osman Naib Mohamed – Esattore della città e distretto di Massawa; esperto conoscitore degli usi e costumi delle varie tribù, è di valido aiuto al Commissariato regionale di Massawa. |
19. Il figlio dell’Ambasciatore di cui al n°16. Conoscitore profondo di costumi e delle leggi delle varie tribù intorno a Massawa ne è l’esattore distrettuale. |
10. Naib Mohamed ‘Abd-el Rakim – Ambasciatore egiziano presso la Corte abissina, rese agl’Italiani importanti servigi durante l’occupazione dell’Eritrea; ha 87 anni. |
16. Abd-El Rakim – Fu ambasciatore degli Egiziani presso l’Abissinia ed all’epoca della nostra occupazione prestò ottimi servizi al Governo. Ha 87 anni. |
11. Virscund Hirgi – Capo della comunità dei Baniani a Massawa; ricco negoziante, conosciuto in tutte le piazze commerciali del Mar Rosso. |
20. Virscund Hirgi – Ricco negoziante e commerciante è il capo della comunità dei Baniani. |
15. Scek Giaber Ghedar – Capo degli Ancalà; di antichissima famiglia della Dancalia. |
18. Giaber Ghedar – Di antichissima famiglia è capo di una tribù della Dancalia. |
16. Degiac Fanta e suoi sottocapi – Degiac Fanta, capo-provincia e capo delle bande dell’Oculè Cusai, cominciò la sua carriera sotto Ras Alula; passò dalla parte degli Italiani nel 1895, e ci rimase costantemente fedele, anche dopo la giornata di Adwa, nella quale si batté valorosamente. |
5. Degiac Fanta – Figlio di un ricco possidente cominciò la sua carriera sotto Ras Alula al quale fu legato da intima amicizia. Combatté a Gura, Cufit, […] ed ovunque fece risaltare le ottime sue qualità militari. […] Cadde in disgrazia perché partigiano degli Italiani ai quali infatti si unì nel Maggio 95. Fu ad Adwa […] Oggi è capo delle bande dell’Acchelé Guzai. |
18. Blata Guaitoon – Capo della metà dei Tedrer, Accattabrighe, violento, insofferente di freno, può renderci all’occasione buoni servigi per la pratica che ha della vita brigantesca. |
38. Blata Guiton – Capo di metà Tedrer, ambiziosissimo, intrigante, prepotente, ingiusto è soldato arditissimo. Il capitano Barbanti lo definì una vera canaglia. |
20. Blatta Bairù – Capo dell’Enda Dascium III. Durante l’isolamento del forte di Adigrat rimase col maggiore Prestinari, nonostante le pene severissime comminate da Ras Mangascià. Cattolico, arditissimo, fedele. |
8. Blattà Bairù – Capo di Enda Dascim III. Prese parte a molti fatti d’arme con la gente del suo paese e non volle saperne di abbandonare il maggiore Prestinari chiuso ad Adigrat malgrado le severissime pene comminate da Mangascià. È Cattolico. |
Tabella 1
Confronto fra il testo in calce presente nella serie di cartoline postali della serie B sulle “personalità indigene” e le note biografiche contenute nella documentazione ritrovata al Museo Civico del Risorgimento di Modena.
Con quale intento dunque il capitano di Aichelburg realizzò le fotografie di ritratto dei capi e notabili eritrei? Erano commissionate dal governo coloniale per scopi amministrativi? Furono stampate come cartoline con finalità propagandistiche? O semplicemente commerciali?
Sicuramente l’incontro fra documentazione fotografica e quella biografica giocò un ruolo determinante nella “prassi della collaborazione indotta”: quale miglior strumento se non la fotografia di ritratto per mantenere un controllo sui “capi” eritrei? Affiancando le immagini dei volti alle biografie, i funzionari disponevano infatti di veri e propri identikit che, a guisa della nascente fotografia segnaletica di matrice criminale (Muzzarelli 2007, 67-76), gli permettevano di riconoscere immediatamente il loro interlocutore. Come emerge dal suo diario, lo stesso governatore Martini era solito consultare questa documentazione prima di incontrare gli eritrei che gli chiedevano udienza (Martini 1942-43 vol. I, 36-37, 38, 68-69, 113-114).
L’accostamento dei due tipi di documentazione fu però successivo e non era premeditato: le fotografie non vennero commissionate da funzionari coloniali ma furono il risultato dell’interesse e della volontà del capitano di Aichelburg5. Dalla ricostruzione del suo portfolio è stato possibile identificare una cinquantina di immagini uniche di “capi e notabili eritrei” corredate da note biografiche, ma si tratta sicuramente di una sottostima6.
Per cogliere l’unicità di questa serie di ritratti è necessario puntare per un attimo lo sguardo sull’autore delle fotografie. Completamente assente nella storiografia coloniale, Errardo di Aichelburg risulta essere un personaggio indubbiamente “dimenticato”. È brevemente citato in alcuni studi sulla fotografia durante il colonialismo italiano (Zaccaria 2007, 2008, 2009; Goglia 1989; Triulzi 1991), ma molto scarse erano le informazioni biografiche disponibili. Grazie a una lunga ricerca presso gli uffici anagrafici, i centri di documentazione militare, gli archivi coloniali e la famiglia è stato possibile ricostruire le principali tappe della sua vita.
Nato a Novara da una famiglia di lunga tradizione militare di origine austriaca, Errardo di Aichelburg (Novara 1865 – Bergamo 1941) divenne ufficiale del corpo dei Bersaglieri, partecipò alla Campagna d’Africa7 (1898-1903) e alla Prima Guerra Mondiale. La sua carriera militare fu lenta e non particolarmente brillante e si arrestò al grado di colonnello.
Più ricca e interessante è invece la sua attività come scrittore8, conferenziere e fotografo. Il corpus fotografico a lui attribuibile consiste di centinaia di lastre, stampe, cartoline postali illustrate, fotografie pubblicate nelle pagine di cinque numeri de “La Lettura” (1911, 1912a, 1912b, 1912c, 1912d) e nei volumi di Arturo Mulazzani (1903) e di Francesco da Offejo (1904). Parte del materiale, ancora inedito, si trova sparso fra diversi archivi e la famiglia9. Il quadro che emerge è senz’altro incompleto ma ci consente di cogliere il suo sforzo di documentare la colonia alla stregua degli studi scientifici sulla geografia, le tribù, le religioni e gli usi e costumi che proprio in quegli anni si stavano sviluppando. Ne risulta una sorta di album coloniale che, da diverse prospettive, si propone di raccontare attraverso l’obiettivo fotografico l’Eritrea italiana di fine ‘800. Di Aichelburg fu infatti, fra i fotografi militari, quello con l’occhio più raffinato, molto più vicino ai fotografi di professione che ai suoi commilitoni dilettanti. Rispetto ai professionisti civili che operavano in colonia10, si muoveva però su una corsia privilegiata. Il suo grado di capitano dell’esercito gli permetteva infatti alcuni vantaggi, primo tra tutti la facilità di entrare in contatto con quel gruppo di capi e notabili che orbitavano attorno alla amministrazione coloniale. Alcuni degli scatti sono stati realizzati, per esempio, davanti alla palazzina Orero a Taulud (Massawa), presso la sede del commissariato regionale dove il capitano di Aichelburg, a differenza dei comuni fotografi, aveva libero accesso. Altri scatti sono invece più “da studio”, la posa del soggetto è gestita, lo sfondo uniforme ed è evidente un ragionato uso della luce sui lineamenti del soggetto. Ciò evidenzia una certa disponibilità dei soggetti a lasciarsi gestire e fotografare, forse per curiosità o vanità, come dimostrano le medaglie esposte in bella vista sul petto, l’abbigliamento regale e l’espressione spesso fiera, forse per un senso di obbedienza e sottomissione nei confronti sì, di un fotografo, ma con la divisa militare, o forse per entrambe le cose. In fondo il loro potere era legittimato proprio dal governo italiano che, oltre al compenso mensile, forniva loro tutta una serie di privilegi che ben li disponeva verso l’amministrazione coloniale. In quanto uomo militare, di Aichelburg aveva poi accesso alle note biografiche raccolte dai funzionari coloniali relative ai soggetti da lui fotografati11.
Tuttavia è per fini commerciali che avvenne il primo “incontro” tra biografie coloniali e ritratti. Fu il segretario particolare Peleo Bacci a promuovere in madrepatria le fotografie di di Aichelburg sotto forma di cartolina. E fra queste troviamo la serie sulle “personalità indigene” che, come detto, per via della presenza di poche righe sulla vita dei soggetti fotografati, è l’unica del suo genere.
Braccio destro del governatore Martini e appassionato di arte, Bacci colse le capacità tecniche ed estetiche del “capitano fotografo”, senz’altro il migliore fra tutti quei militari che, sempre di più in quel periodo, giungevano in colonia già forniti di apparecchiatura fotografica (Della Volpe 1980, 23). Che gli ufficiali scattassero delle fotografie in colonia era cosa gradita a Martini. Mancando un reparto fotografico ufficiale, lo stesso governatore infatti si servì di alcuni di loro (Zaccaria 2008, 152-153) e, sebbene non sia stata trovata ad oggi documentazione in merito, considerando che commissionò a di Aichelburg alcuni scatti (Martini 1942-43 vol. II, 131, 231), sicuramente apprezzò la serie di cartoline sulla colonia realizzata a partire dalle sue fotografie.
Più colto, informato e attento all’opinione pubblica rispetto ai suoi predecessori militari, il governatore comprese infatti la svolta che stava avvenendo in quegli anni grazie ad un uso sempre maggiore della fotografia nella stampa e nelle cartoline illustrate, e se ne servì per portare avanti una vera e propria opera di propaganda pro Eritrea. Rilanciare l’immagine dell’Eritrea era, per lui, di vitale importanza: il dibattito parlamentare che seguì la sconfitta di Adwa aveva infatti riacceso gli animi degli anti-africanisti, mettendo in discussione la stessa permanenza in Eritrea. L’invio in colonia, nel 1897, di Ferdinando Martini, primo “vero”12 governatore civile, lascia infatti intendere il cambio di rotta del governo italiano rispetto ai metodi militaristici che portarono alla disfatta. Si era scelta una linea che fosse più “politica”, attenta cioè a ristabilire buoni rapporti di vicinato con l’Etiopia e che rinunciasse ad espandere i confini dell’Eritrea per promuovere uno sviluppo pacifico del territorio ed evitare l’abbandono incondizionato della colonia.
La politica di smilitarizzazione alimentò lo scontro fra potere militare, che aveva fino a quel momento governato la colonia, e potere civile, rappresentato dai metodi del nuovo governatore. A farne le spese furono proprio gli ufficiali che, nella nuova politica votata alla pace, vennero sostituiti negli incarichi amministrativi dal nuovo personale civile13. In sovrannumero rispetto alle effettive esigenze della colonia, molti di loro furono rimpatriati con il minimo pretesto (Ivi vol. I, 48-49, 88-89, 89). Chi restava in colonia passava le lunghe e calde giornate africane oziando al Circolo degli Ufficiali (ivi, 27) o coltivando le proprie passioni. È in questo contesto che il capitano Errardo di Aichelburg, “mediocre” militare ma fotografo “abilissimo” (ivi vol. II, 131, 135) poté impiegare il tempo libero a documentare la colonia attraverso l’obiettivo fotografico, dando vita alle centinaia di immagini giunte fino a noi14.
Che si trattasse di militari dilettanti o di professionisti civili l’arte fotografica fu sicuramente uno strumento di dominio nelle mani del colonizzatore, soprattutto per quanto riguarda le fotografie con soggetti umani. Attraverso l’obiettivo l’individuo veniva spogliato della sua singolarità e inserito all’interno di una anonima casella da catalogo. Migliaia di uomini e donne “senza nome” venivano dunque trasformati in “tipi” umani, attività lavorative, categorie sociali (Palma 2002, 96).
La serie di cartoline sulle “personalità indigene” invece, proprio per il suo stretto legame con le raccolte biografiche, pare distaccarsi da questa logica. Restituendo al colonizzato un nome e una storia, sembra quasi riconsegnargli la sua identità. Vero è che questa fascia sociale che si interpone fra il potere coloniale e la massa di “sudditi” è sicuramente “privilegiata”: i ritratti svelano sguardi fieri, abbigliamento elegante e medaglie in bella vista, a testimonianza del fatto che la fotografia comunque li consacrava, all’interno della società eritrea, nel ruolo di “garanti” del potere coloniale. Ma il fatto stesso di restituire una umanità a questi uomini, riconoscendo loro un nome, una storia e un incarico di potere, rientra a pieno titolo nella logica del dominio: non è l’eritreo che si libera dall’anonimato tipico del colonizzato ma è l’italiano che concede, a chi è fedele e sottomesso, una umanità. Il riconoscimento del nome e del ruolo sociale è subordinato all’approvazione del governo coloniale italiano, senza il quale questi personaggi non sarebbero niente, destinati a tornare nell’ombra della massa colonizzata.
Dal loro costante dialogo con l’amministrazione coloniale nacque l’esigenza di associare il loro volto a un nome e a una storia personale, ma i profili che ne risultano sono ovviamente parziali, costruiti dal potere coloniale a partire dalle informazioni di cui disponeva e che più interessavano all’amministrazione. Mancando la controparte eritrea si rischia di cadere nel noto problema della “storia scritta dai vincitori”, attorno alla quale ruotano le mute pedine costituite dai “vinti”. A ben vedere, se si considera il riconoscimento loro concesso, queste “personalità eritree” rientrano a pieno titolo fra i “vincitori”, ovvero fra coloro che trassero vantaggio dal regime coloniale.
Non si può nemmeno dire che furono “muti”: loro ci parlano attraverso le fotografie, esibiscono orgogliosi il loro status, ricambiano lo sguardo in segno di intesa, osservano a loro volta l’osservatore giudicandolo, in un “dialogo visivo” più unico che raro che, nascosto dietro ai soggetti ritratti, viene impresso per sempre sulla carta fotografica, quasi a voler suggellare un patto di reciproca consacrazione fra potere coloniale (rappresentato dal fotografo militare) e classe dominante eritrea (rappresentata dalle “personalità indigene”).
Questa preziosa e unica raccolta fotografica dunque, fornisce una doppia linea di lettura agli storici: se da un lato mette in luce una funzione di “legittimazione” al potere dei “capi eritrei”, dall’altro fornisce un contributo inedito alla ricostruzione di quel meccanismo di “controllo” che caratterizzò il dominio indiretto di matrice italiana fondato sulla “prassi della collaborazione indotta” già testimoniato dalle raccolte biografiche.
Puntando l’obiettivo sui “capi eritrei” di Aichelburg li esorcizzava intrappolandoli fra i quattro lati di un foglio di carta, in quella “gabbia a due dimensioni” rappresentata dalla fotografia, contribuendo a diffondere l’illusione che l’amministrazione coloniale potesse effettivamente mantenere un controllo sull’Eritrea e sui suoi “capi”, illusione necessaria per superare lo shock subito dall’opinione pubblica italiana all’indomani della sconfitta di Adwa.
Aquarone A. 1989 Dopo Adua. Politica e amministrazione coloniale, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali. Battaglia R. 1958 La prima guerra d’Africa, Torino, Einaudi. Bollini M.G. 2007 (cur.) Eritrea 1885-1895. Nascita di una colonia attraverso i documenti e le fotografie di Antonio Gandolfi, Ledru Mauro, e Federigo Guarducci, Bologna, Tipografia Lipe. Burgio A. 1999 (cur.) Nel nome della razza: il razzismo nella storia d’Italia, Bologna, Il mulino. Cerreti C. 1995 (cur.) Colonie africane e cultura italiana fra Ottocento e Novecento. Le esplorazioni e la geografia, Roma, Cisu. Chelati Dirar U. 2007 Colonialism and the Construction of National Identities: The Case of Eritrea, in “Journal of Eastern African Studies”, vol. 1, n. 2. da Offejo F. 1904 Dall’Eritrea. Lettere sui costumi abissini, Roma, Tipografia La Vera Roma di Enrico Filiziani. Del Boca A. 1976 Gli italiani in Africa orientale. Dall’unità alla marcia su Roma, Roma-Bari, Laterza; ed. 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LVII, n. 4. 2007 In posa per una più grande Italia. Considerazioni sulle prime immagini del colonialismo italiano, 1885-1898, in Bollini. 2008 “Quelle splendide fotografie che riproducono tanti luoghi pittoreschi.” L’uso della fotografia nella propaganda coloniale italiana (1898 – 1914), in Fiamingo. 2009 (cur.) Le note del commissario, Tebaldo Folchi e i cenni storico amministrativi sul commissariato di Massaua (1898), Milano, Franco Angeli.Bibliografia
http://www.internetculturale.it/opencms/ricercaMagExpansion.jsp?q=Di+Aichelburg+Errardo Offre la possibilità di leggere i cinque numeri de “La Lettura” che contengono gli articoli e le fotografie di Errardo di Aichelburg.Siti consigliati
Biografia
Biography
1 Per la ricostruzione dell’attività dell’Agenzia per le Tribù è stata consultata la documentazione conservata all’Archivio Storico Diplomatico del Ministero per gli Affari Esteri – Archivio Eritrea, pacco 164.
2 Archivio Storico Diplomatico del Ministero per gli Affari Esteri – Archivio Eritrea, pacchi 164, 178, 378, 1042; Archivio Centrale di Stato di Roma, Fondo Martini, Buste 8 e 16; Museo Civico Giulio Ferrari di Carpi – Fondo Gherardo Pio di Savoia, Busta G173, fascicoli 7, 8, 9, 10; Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna – Fondo Storico Antonio Gandolfi, fascicolo 5.2.1.2; Biblioteca Comunale Forteguerriana di Pistoia – Fondo Bacci, fascicolo X.1.a; Archivio del Museo del Risorgimento di Modena, Busta “Guerre coloniali”, fasc. 5, sottofasc. 3.
3 Si ringraziano i Musei Civici di Modena e l’archivista Federica Collorafi per la segnalazione.
4 Archivio fotografico del Museo Civico del Risorgimento di Modena, Busta “Guerre coloniali”, fasc. 5, sottofasc. 3.
5 Al di là di una mera questione cronologica (gli scatti infatti anticipano di almeno due anni le note biografiche del manoscritto di Modena), l’unica lettera (1899) di cui disponiamo (Biblioteca Comunale Forteguerriana di Pistoia – Fondo Bacci, XI.8a.2.) lascia intendere che il capitano di Aichelburg, desideroso di documentare la colonia, fotografava per diletto e in autonomia o, tuttalpiù, con l’intento di vendere alcuni dei suoi scatti. Assieme alla lettera in questione infatti, di Aichelburg invia al segretario particolare Peleo Bacci “un pacco contenente 2 buste gravide di fotografie” fra le quali si trovano diversi ritratti di notabili eritrei, chiedendo di fargli da tramite per venderle in Italia a “39 centesimi l’una […] a chi volesse acquistarle per la compilazione di un album commerciale”. Una ricevuta di pagamento tramite vaglia postale di 32,95 lire che si trova conservato assieme alla lettera suggella l’acquisto, da parte di Bacci, di diverse decine di fotografie del capitano.
6 Venti di questi capi e notabili fanno parte della serie B delle cartoline sulla Colonia Eritrea stampate dallo Società Editrice Laziale di Roma nel 1901; diciotto ritratti si trovano conservati presso l’Archivio fotografico del Museo Civico del Risorgimento di Modena (Busta “Guerre coloniali”, fasc. 5, sottofasc. 3); altre fotografie fanno parte del fondo Bacci conservato alla Biblioteca Comunale Forteguerriana di Pistoia (fascicoli XI.a, XI.b, XI.c); qualche altro ritratto si trova nel volume di Arturo Mulazzani (A. Mulazzani, Geografia della colonia Eritrea, Firenze, Bemporad & Figlio, 1903); infine, un contributo importante arriva dall’inedito fondo fotografico privato custodito dalla famiglia di Aichelburg. Sebbene disseminati fra gli archivi, questi ritratti fanno parte di un corpus unico realizzato in larga misura fra il 1898 e il 1900.
7 Suo fratello, il tenente Ervedo di Aichelburg, aveva prestato servizio in Eritrea dal 1894 rimanendo ucciso durante la battaglia di Adwa (1 marzo 1896). Errardo giunse in Africa intenzionato a vendicarlo (di Aichelburg 1914).
8 Per un elenco completo dei testi attribuibili a Errardo di Aichelburg si rimanda alla bibliografia finale.
9 Museo Civico del Risorgimento di Modena, busta “Guerre coloniali”, fasc. 5, sottofasc. 3; Biblioteca Forteguerriana di Pistoia – Fondo Peleo Bacci, busta XII, fasc. 11a, 11b, 11c; Museo del Risorgimento di Milano – Archivio della fondazione G. Castellini, cartella 7, pos. 20663; cartella 17, pos. 25093; Fondo Privato [inedito]; Altre fotografie sono state segnalate dal prof. Luigi Goglia (1989, 50, nota 79) presso la Fototeca del Museo Africano di Roma.
10La storiografica indica nei fotografi Luigi Fiorillo, Mauro Ledru, i fratelli Nicotra e Luigi Naretti i primi professionisti italiani che fotografarono la colonia. Anche Naretti aveva nel suo catalogo diversi capi eritrei, sprovvisti però della descrizione biografica (S. Palma, «Fotografia di una colonia: L’Eritrea di Luigi Naretti (1885-1900)», Quaderni storici, 109, a. 37, fasc. 1, aprile 2002, p. 87).
11Ciò emerge chiaramente dalla lettera prima citata (nota 5), inviata dal capitano al segretario particolare Peleo Bacci, residente ad Asmara. Prima dei saluti di forma infatti, di Aichelburg chiede a Bacci di “pregare De Rossi voler[gli] comunicare quei dati biografici di quei due messeri” da lui fotografati poco tempo prima nella capitale. Il riferimento è ovviamente alle informazioni biografiche raccolte dai funzionari coloniali nei registri di cui si è parlato. Giuseppe De Rossi, infatti, in quel periodo curava proprio i rapporti con diversi “capi” eritrei, fra cui alcuni fotografati da Errardo di Aichelburg. Si veda ad esempio il fascicolo sul däğğač Fanta, compilato da De Rossi e conservato nell’Archivio Centrale di Stato di Roma – Fondo Martini, Busta 16.
12Il primo governatore civile fu Oreste Baratieri che però era in realtà un generale dell’esercito. Il suo governatorato si caratterizzò per una forte impronta militaristica che si concluse con la sconfitta ad Adwa (1 marzo 1896).
13A suggellare il cambiamento in senso civile fu il nuovo ordinamento organico della colonia approvato con regio decreto n°48 dell’11 febbraio 1900 (Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia n° 50 del 1 marzo 1900, pp. 794-813).
14Da tutte le immagini che ho raccolto ho potuto estrapolare una dozzina di categorie: autoritratti, militari italiani in Eritrea, personalità “indigene”, donne dell’Eritrea, “tipi” eritrei, ascari, bambini eritrei, usi e costumi, animali, archeologia eritrea, pittura eritrea, paesaggi e vedute.